Il terzo disco dei Love, band di Los Angeles capitanata dal talentuoso e eccentrico Arthur Lee, esce nel giugno del 1967, all’inizio della “Summer of Love”. Ma, a parte la concomitanza storica, poco condivide con altri dischi che fecero da colonna sonora a quell’estate, come “Surrealistic Pillow” dei Jefferson Airplane.

Inoltre Los Angeles non era San Francisco e la (contro)cultura hippie non fu l’influenza determinate per Lee e soci, almeno da quanto si desume dai testi delle canzoni. C’è poco o niente della retorica “peace & love” in questo disco, ma una strisciante inquietudine che si insinua qua e là negli arrangiamenti di archi, nelle voci sfasate che fanno capolino, nell’uso quasi nevrotico dei (pochi) fraseggi di chitarra elettrica.

Ciò che stupisce dell’album è la scelta dell’accompagnamento orchestrale utilizzato in molti brani, fra archi e trombe mariachi, le quali ben rispecchiano l’influenza della cultura chicana a Los Angeles. Il passo delle composizioni è sempre lento, a parte le più sostenute “A House is not a Motel” e “Bummer in the Summer”, e a volte sembra di perdersi nel tempo, in un tempo cristallizzato dove Lee si sofferma in estatica contemplazione, come in “Andmoreagain”. L’essere un’opera profondamente senza tempo - figlia degli anni ’60, ma allo stesso tempo fruibile appieno a più di trentacinque di distanza e quindi sempre attuale – è uno dei meriti maggiori di questo “Forever Changes”. Mai titolo è stato più profetico nel sintetizzare l’atemporalità e il fragile equilibrio di queste composizioni, equilibrio che di lì a poco verrà meno, minato dall’abuso di eroina, determinando la fine di questa line-up e in pochi anni del gruppo stesso.

“This is the time and life that i’m living, and i face each day with a smile”

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