Vabbè mi espongo: in cima ci sono i Red House Painters, poi, a scendere, tutti gli altri. Codeine, Galaxie 500, Mazzy Star, Seam...e Low. Eh, i Low. Non so, non mi hanno mai preso del tutto. L'osannato "I Could Live In Hope" l' ho sempre trovato troppo meditato per essere accostato ai capisaldi di intensità esistenziale del movimento quali "Down Colorful Hill" e "Frigid Stars". Il disco racconta in maniera depressa, ma non sempre narra depressione. Si adegua alle regole formali del gioco: accordi languidi, cantato abulico, batteria indolente, basso svogliato ma ben in mostra... risultando cosi, in più di qualche circostanza, manierista. Qualcuno potrebbe obiettare che i Low hanno intrapreso la strada della "meditazione spirituale" e che quindi questa solennità ricercata è voluta e raggiunta. D'accordo, ma il succo del discorso non cambia. Quale che sia stato lo scopo della band, gli arrangiamenti del disco appaiono edonisti nella loro sofferenza ostentata e un poco cerebrale.
Nell'episodio forse più sincero del lavoro, "Words", già nel '94 si riscontrava comunque un'attitudine tutt'altro che inedita, con quella voce accorata di stampo galaxiano e il resto dell'ensemble che l'accompagnava con la mestizia tipica del genere. Però nel complesso il pezzo funziona. Con "Fear" i Galaxie abbracciano Drake e il dolore diventa più intimista, ma preferisco il buon Nick quando canta "Time Has Told Me". Con "Cut" e "Slide" invece inizia l'intellettualismo applicato al fatalismo. Arpeggi alla Codeine aprono la prima, per poi lasciare spazio ad un basso minaccioso seppur quasi impercettibile. La seconda invece non dista molto dall'aria onirica che si respirava in una "In My Garden" cantata da Jarboe, seppur lì il filtro era prevalentemente gotico. La più ambiziosa, "Lullaby", è anche la più riuscita insieme alla prima traccia, con un' appendice chitarristica in crescendo che finalmente manifesta una tensione drammatica concreta e tangibile, prima di ricadere nell'anemia iniziale. Purtroppo però, se l'accostiamo a una "24"...il capolavoro di Kozelek risulta superiore e per capacità di disegnare paesaggi di desolata malinconia, e per interpretazione vocale (Kozelek è Kozelek, signori miei: una voce lontana eppure cosi vicina, straziata eppure cosi indifferente, matura eppure cosi infantile) senza nulla togliere a Mimi Parker. Gli altri pezzi soffrono dei medesimi difetti e la conclusiva "Sunshine" prova a discostarsi leggermente dal tono funereo del disco, un apparente spiraglio di luce, che in quanto tale lascia sprofondare l'ascoltatore in un buio spettrale ancora più pesto, una volta conclusosi. Ma la reiterata ricerca di solitudine ontologica, asettica desolazione e chi ne ha più ne metta, ne inficia a tratti la spontaneità, la naturalezza, come se i Low DOVESSERO suonare in un certo modo, della serie "dobbiamo vincere il premio band tristona del decennio". No, cosi non mi sta più tanto bene.
Non brutto, ma se sto giù mi rivolgo ad altro.
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