Nonostante i Low fossero una delle band più ispirate degli ultimi vent'anni; e sebbene la qualità media della discografia del trio di Duluth fosse tale da far impallidire buona parte dei colleghi; nonostante qualcuno di questi sia sia iscritto al collocamento dopo aver provato a sfiorare - anche solo in una nota - la tensione e il dramma che abitualmente i nostri riescono ad evocare utilizzando i più classici ed abusati tre strumenti della musica rock; nonostante tutto ciò, il gruppo del Minnesota stava cadendo nella trappola: rimanere nella (pur) dorata ombra del gigantesco esordio discografico, I Could Live In Hope, manifesto dello slowcore pubblicato nel 1994.
Si affrettava, quindi, la band a smentire le voci che li volevano come band di punta di tale genere. Non ci stavano ad essere ingabbiati in quella parola e Sparhawk, come compositore, sentiva di poter fare un ulteriore passo in avanti. Ma passavano gli anni, i dischi, e quelle dichiarazioni non convincevano più. Probabilmente neppure sè stessi.
I dubbi si sarebbero dipanati solo nel 2001 con l'uscita di Things We Lost In The Fire per la Kranky.
L'esasperata lentezza - un tempo caratteristica essenziale, imprescindibile della musica della band - è ora degradata a semplice elemento tra i tanti. La lunghezza media dei brani diminuisce; diverse sono le occasioni in cui si và al di sotto dei tre minuti. Le atmosfere malinconiche, rarefatte ed eleganti, i celestiali intrecci vocali di Mimì ed Alan, i maelstrom emozionali che irrompono in maniera improvvisa - tanto è delicato e schivo il modo di suonare dei Nostri - devono fare i conti con una freschezza e un immediatezza musicale inusitate per gli standard dei pregressi Low. Profondità e spessore si coniugano, per la prima volta, con una relativa fruibilità di ascolto. Gli arrangiamenti, sempre minimali, si arricchiscono di tastiere, archi e strumenti a fiato. La cenere della collaborazione con i Dirty Three è ancora calda.
Sento, a questo punto, di dover spendere due parole sull'uomo che ha immortalato, in questa occasione, le note del trio: Steve Albini. Capostipite inimitato di una generazione di fotografi del suono, Albini si limita (?) a catturare gli strumenti nel loro massimo splendore con piglio neorealista. La vostra unica possibilità di percepire i suoni in forme più realistiche, più vibranti e più idealmente e fisicamente vicine è quella di assistere ad un concerto del gruppo. Accettando gli errori e le imperfezioni di questo; il brusio, il vociare e gli applausi del pubblico. E' evitato , così, in un album pressochè perfetto e sicuramente struggente, il rischio di risultare stucchevole.
Da qui parte un nuovo, fecondo percorso musicale della band, e la bontà delle opere future è lì a testimoniarlo. Non si parla più, dunque, di slowcore. Questo è solo un grande disco rock/pop scritto arrangiato e suonato dai Low come solo i Low avrebbero saputo fare; e se questa definizione vi appare tautologica, è probabile che abbiate ragione, ma è la migliore che mi viene in mente.
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