Sebbene l’elica di un aeroplano radiocomandato gli avesse quasi tranciato una mano, riuscì lo stesso a diventare “l’Orson Welles del rock”, come lo avrebbe in seguito definito l’amico Jackson Browne. Usando uno svitacandele, divenne il più straordinario suonatore di slide guitar del mondo, pari solo a Duane Allman e Ray Cooder.

Nei tardi anni Sessanta Frank Zappa lo chiamò a suonare nelle Mothers e Lowell sparse polvere di stelle in “Weasels Ripped My Flesh” e nel capolavoro “Hor Rats”. I Rolling Stones lo citarono in “Let It Bleed” come loro influenza fondamentale e in pochi anni egli riuscì a crearsi un seguito di eccezionale rispetto e considerazione nel giro di musicisti losangelini. Dall’inizio degli anni Settanta fondò e guidò per tutto il decennio i Little Feat nell’ esplorazione delle infinite possibilità del suono dell’America profonda, affinando una capacità compositiva già eccellente in capolavori come “Willin” , “Sailin’ Shoes” e “Dixie Chicken”.

Ma Lowell George era sopra ogni cosa una voce, proiezione di un talento e una musicalità davvero senza euguali. “Thanks I'll Eat It Here”, del 1979, è il suo unico lascito come solista, dispensatore di meraviglie sonore e interpretazioni superbe. Sulle incomparabili geometrie ritmiche di Jeff Porcaro, Jim Keltner (batteria) e Chuck Rainey (basso), si innestavano il pianoforte del leggendario Nicky Hopkins (già con Stones e Airplane), le tastiere del mago A.O.R. David Foster e del Little Feat Bill Payne, nonché la celebrata slide-guitar di George, il quale si occupava anche di produrre il disco. Bonnie Raitt, J.D. Souther e Maxine Willard Waters vi infusero le armonie vocali: questo tanto per citare solo le comparse più prestigiose. Un discorso a sé merita la scelta del repertorio: oltre allo stesso Lowell George, tra gli autori comparivano Allen Toussaint, Van Dyke Parks, Jimmy Webb e Rickie Lee Jones, alcune tra le più grandi firme di songwriter stelle e strisce.

Quello che ci resta tra le mani di tanta profusione di talenti non delude le aspettative: è un affresco grandioso di stili e arrangiamenti sui quali trionfa la magnifica voce di Lowell, generatrice di emozione pura, pioggia sull’asfalto rovente che evapora calore, chiasso carnale di corpi stremanti d’amore. All’incontrollabile potenza ritmica dell’incedere di “What Do You Want the Girl to Do?” di Toussaint, dove il suono di New Orleans tuona la propria apoteosi, segue il delirio isterico di “Honest Man”, con i fiati che non danno tregua e reggere il colpo è già diventato difficile. “Two Trains” ci inebria coi profumi meticciati di Dixie Chicken e “I Can't Stand the Rain” travolge di ritmi sincopati la slide di George. “Cheek to Cheek” si lega idealmente alla “Linda Paloma” di Jackson Browne e alla “Carmelita” di Warren Zevon, in un’abbraccio di tensioni spirituali verso e oltre il confine messicano. Se “Easy Money” di Rickie Lee Jones è ancora un avido sorso di rock-blues, “20 Million Things” e “Find a River” sono i momenti crepuscolari, in cui si lascia spazio alla commozione, al nettare malinconico della melodia, quando quasi dolcemente si fa spazio il dubbio di non potercela fare.

Mattino di festa è “Himmler's Ring” di Webb, meraviglia che risorge stelle filanti e fanfare vaudeville, “Heartache” il mesto commiato di una personalità musicale strabordante, irripetibile: un attacco cardiaco lo avrebbe stroncato durante il tour promozionale del disco.

A 34 anni, le ceneri disperse nel Pacifico.

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