Mentre l'odore di caffè si diffonde nella stanza il CD inizia a girare, mentre ne apro il libretto con quel distacco che si può avere quando si incontra il proprio vicino di casa, sconosciuto, eppure familiare.

Avevo ricevuto il disco - ultimo lavoro della carriera - ormai tre giorni fa, ma è rimasto lì, vicino al lettore, come un pendolare che presto prenderà il suo treno. Sarà stata quella minaccia a forma di nuvola, grande come una città intera, sulla copertina del disco, ad aver tenuto lontana la mia voglia di liberare il disco dal cellophane come se si trattasse di un pacchetto di crackers qualsiasi.

La conferma del presagio che incombe arriva presto, prestissimo, bastano venti secondi di ascolto. "We don't know how to act/ Something is buried here": ecco Clear ad aprire il disco, con quell'acustica che è una cicala in inverno, e la tastiera che pulsa come farebbe in un servizio di cronaca nera alla TV. Potresti chiamarla angoscia, forse malinconia, ma andresti fuori strada, perchè si tratta di un mood indefinibile che conosci già, sentito da qualche parte tra le tracce dei lavori precedenti dei Lowgold.

E mentre provi a definire il senso di incantata quanto inaspettata speranza che dischiude il primo ritornello dell'ascolto, pensi a quanto esso sia musicalmente gradevole e azzeccato, così pop, così British e così vagamente soul allo stesso tempo. Può essere? Non sai rispondere, ma i Lowgold di Promise Land ci riescono come hanno sempre fatto.

E poi pensi a quanto siano lontani i tempi in cui i Lowgold aprivano concerti di gente qualsiasi come Grandaddy o Coldplay, e su quante riviste sia finito il nome Lowgold, oggi quasi dimenticato nella soffitta dell'industria musicale. Non parliamo di una pietra miliare, questo è certo, ma questo Promise Land suona, se non altro, fresco e godibile, a suo modo unico, come puntualmente suona unico un buon lavoro fatto con onestà. Qui sono sempre i Lowgold, dicevamo, ma si sente che qualcosa si è, più che rotto, consumato. "Beautiful don't mean always", e l'avvertimento di Burning Embers non potrebbe essere più chiaro. Non vedremo mai più i Lowgold sulle copertine de Il Mucchio, la fama brucia, come le braci sulle quali adesso i nostri promettono di poter prendere il largo. Torna in mente la barchetta cartacea di "Welcome to winners", e non solo, perchè nel frattempo il quattro quarti di Don't let love in punta il dito dritto verso il sound dei lavori precedenti.

Nonostante ciò, si sente una produzione diversa, ed una composizione che qualche volta tenta di trovare altre strade, spesso rinunciando agli intrecci chitarristici degli esordi per strizzare l'occhio a soluzioni molto più rock, o magari lontanamente wave ("Just like skin", "Dead Sea"). Certo è che il suono si fa più preciso (i maligni direbbero ruffiano), e dove non arrivano le chitarre potrà sempre arrivare il mixer: sentire Nothing Stays the Same per misurare la distanza che separa questo lavoro da Just backward of square, l'esordio sulla lunga distanza che li portò sotto i riflettori.

Ben detto Darren Ford, nulla rimane uguale a se stesso: i tempi cambiano, le stagioni si avvicendano, e le next big thing di quindici anni fa non sono più big, e nemmeno thing. Figuriamoci next. A questo penso mentre gli arpeggi amari di Hope and Reason, ultima traccia, girano come una giostra rotta. Così riesco per un attimo a figurarmi cosa debbano essere queste Promise Lands, territori di speranze a metà e aspettative mancate, nelle quali ciò che avrebbe potuto essere non sarà mai. Per questo motivo i Lowgold rimangono una promessa, nonstante tutto, mantenuta fino in fondo. Per la coerenza e - verrebbe da dire - l'ostinazione con la quale hanno inseguito un'idea stilistica di pop-rock chitarristico tutta loro, che rimane intatta nonostante non produrrà mai capolavori assoluti e folle oceaniche a cantare i loro ritornelli.

Una promessa quasi come questo - ormai - gelido caffè, che avrei potuto bere caldo, e che invece non lascia altro che il suo profumo nella stanza. E mentre sento Ford cantare "This is suicide..." guardo un'ultima volta la copertina, e quella nuvolona nera sulla città immobile. Quanto mi mancano, oggi, i Lowgold.

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