Quand'è che si decide di scrivere una recensione?

Tutti noi abbiamo dischi che riteniamo stupendi, perfetti, magnifici, e forse proprio per questo non riusciamo a buttare giù un testo che ci sembri all'altezza. O magari dischi che sono stati recensiti 6 volte, e abbandoniamo l'idea per non venire sommersi dall'enciclopedia dell'umorismo o da ricette di dolci neozelandesi nei commenti. Ci sono alcuni album per i quali "c'è sempre tempo" per scrivere una rece, tanto dubitiamo venga in mente ad altri, ce ne sono altri dei quali magari abbiamo già iniziato a buttare giù qualcosina nero su bianco, ma manca la chiusura o la copertina.

E poi c'è il disco che butti nello stereo un giorno senza sapere il genere, ignorando dove l'hai comprato o scaricato e appena inizia la prima traccia...cazzo! Ma questo devo recensirlo, ti ripeti mentre il battito di tempo col piede ha già lasciato spazio ai primi dondolamenti di testa. Cerchi una penna che naturalmente non c'è, e lo scuotimento diventa più armonico e convinto; allora una volta trovata la matita arancione che però non ha la punta (e tu non sai che forma ha un temperino dalla 2° media) accendi al terzo tentativo il PC (ormai l'epilessia musicale ti rende difficile anche schiacciare un tasto), apri word, ti siedi, scegli un carattere umanamente visibile e che non sia Wingdings e... lasci stare tutto, ti rialzi per rimettere la prima canzone del disco e inizi a saltare sul divano.

Quello è il momento ideale per scrivere una recensione. Ma ci vuole il disco giusto.

"Ode To Io" è per me uno di quei dischi. Ciò non lo fa diventare automaticamente un capolavoro, magari fra un anno mi troverò a rivalutarlo a ribasso, probabilmente lo ascolterò molto in questo periodo e più avanti chissà... sta di fatto che ora, mentre scrivo, ringrazio di avercelo fra le mani.

E lo faccio ripartire ancora dall'inizio: irrompe "Caravan", con la quale già si inquadra tutto l'album. Immediata, prorompente, grezza. Stoner-rock dei più semplici, qui non ci sono psichedelie particolari, niente rallentamenti doom, quasi inesistente l'elettronica o i campionamenti vari.

Però la semplicità è proprio la forza di questo quartetto svedese che viene da Karlstad; dopo uno split con i Nebula (band di Glass e Romano, ex Fu Manchu) questo è il loro unico album uscito nel 2000 e ristampato nel 2002, da allora nulla più, anche se ufficialmente la band non è ancora giunta allo scioglimento.

Le tracce si mantengono tutte sullo stesso piano, chitarre sporche, metriche semplici quanto coinvolgenti e colpisce in molte canzoni il convincente lavoro di un basso dai toni sabbathiani ("Texas pt. I & II") che ci fa alzare i piedi da terra. E allora per gli amanti del genere come resistere all' attacco inziale di "Dust Settlin'" che fa resuscitare i Kyuss, ai riff di "Anchor", all'andatura cadenzata di "Convoy V" oppure al ritmo rock col charleston spalancato di "Flat Earth"? Ci si lascia andare, rilassandosi un po' quando arriva "Sun Devil", ruvido intermezzo acustico che divide in due il disco e che ci proietta verso le altrettante belle "Riding Shotgun" e "Saguaro", introdotta quest'ultima da interferenze radiofoniche.

Si satura la stanza, le note penetrano ovunque, le sonorità rock ultra-dilatate ci avvolgono.

E poi, diciamocelo, che male c'è a dimenarsi un po' nel salotto di casa mentre si ascolta un buon disco? Ci si sente meglio, ci si sente più liberi, si sente che è "normale" lasciarsi andare alle convulsioni sonore.

Almeno fino a quando non incrocio lo sguardo di mia moglie appoggiata alla porta che mi scruta con compassione psichiatrica mentre sono in cima ad una sedia col battipanni in mano che mimo una bella schitarrata.

E ci si sente decisamente meno "normali"...

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