Gli anni '90: la mafia, l'immigrazione, lo shock post 80's, la voglia di riprendersi e di riappropriarsi del tempo perduto.

L'ormai quasi trent'enne Luca Carboni decideva di mettersi in gioco definitivamente, stavolta senza dover affrontare necessariamente i percorsi introspettivi e troppo spesso pessimistici dei primi dischi. Senza abbandonare quel realismo verghiano a lui tanto caro, il cantautore bolognese raggiunse un successo clamoroso con questo quinto album realizzato fra Milano e Bologna. Ovunque ormai si canticchiava "Ci vuole un fisico bestiale", mentre "Mare mare" diventò colonna sonora di lunghe vacanze lontano dalle città.

E sembra essere proprio la città il punto centrale del lavoro, una città che "mi chiude in una stanza e mi fa sentire solo" e che ci obbliga "sempre dentro a qualcosa, un'auto che va o dentro a un tram. . . Senza mai vedere il cielo e respirando smog". Chiaro il riferimento a Bologna, ma il discorso potrebbe essere allargato a qualsiasi altro posto. È interessante infatti notare come Carboni si faccia portavoce di un cittadino qualsiasi, incazzato e furioso, stanco dell'ipocrisia delle persone e dell'autodistruzione umana ("C'è chi a lavorare è obbligato a imbrogliare e c'è chi per poterti fregare ha imparato a studiare"). Ma se "La mia città" sembra il pezzo di maggior impatto del disco, non da meno è "Alzando gli occhi al cielo". Qui Carboni è incredulo, inerme e allo stesso tempo sembra quasi voler persuadere "certi potenti" e certi "capi della mafia"("Ma se per caso alzano gli occhi al cielo come fanno a non cagarsi sotto, a non sentire freddo."). Avendo visto proprio ieri il "Romanzo criminale" di Michele Placido, fa un effetto tremendamente strano dover parlare di questo pezzo, per i temi trattati e per le immagini che immediatamente tornano alla mente. C'è spazio per riflessioni sull'esistenza nella dolcissima "Siamo le stelle del cielo".

Si torna agli interrogativi, stavolta sull'amore nell'esplicita "L'amore che cos'è". Il blues elettronico di "Sad Jack" narra la vicenda di un padre di famiglia giunto ormai all'esasperazione dopo aver scoperto che il proprio figlio si buca (deja-vu) e che la propria vita va a rotoli, ma che nonostante tutto ha ancora il coraggio di sorridere. "Tempo che passi" è un'amara riflessione sul trascorrere del tempo. "Le storie d'amore" fanno male e Carboni non dimentica il romanticismo velato di malinconia già cantato in "Farfallina" o in "Ci stiamo sbagliando".

Se dal punto di vista dei contenuti il disco è ricco di spunti, dal punto di vista musicale non si può dire il contario. Le canzoni sono sicuramente più accessibili, ma ci sono tante sottigliezze, specie negli arrangiamenti e nella sezione ritmica (nonostante la batteria sia computerizzata in tutto il disco) che rendono l'album ancora fresco ed attuale a distanza di 14 anni. Splendida inoltre l'onnipresente chitarra blues di Jimmy Villotti, che impreziosisce pezzi come "La mia città" e "Siamo le stelle del cielo" di assoli gioiello.

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