Domenica: cosa fare? Sarà colpa del maltempo, sarà un vago istinto masochistico, fatto sta che ho afferrato il coraggio a quattro mani e mi sono messo su Spotify ad ascoltare per intero “Made in Italy”, undicesimo disco di inediti di Ligabue. I singoli usciti finora mi avrebbero ampiamente consigliato il contrario, ma è prevalsa l’idea del “peggio di così non si può”. In effetti, peggio non è stato: pezzi come “G come giungla” e “Made in Italy” sono di una bruttezza unica, anche nei confronti del resto del disco, e il fatto che siano stati scelti come singoli la dice lunga sul livello della musica italiana A. D. 2017. Ma andiamo con ordine...
Partiamo da un problema di fondo: si può classificare Ligabue come “rock”? Probabilmente, già da diversi anni questa etichetta non ha più senso. Se parliamo di questo ultimo album, i pezzi anche solo stilisticamente “rock” sono un paio e del tutto trascurabili (“La vita facile”, il già citato “G come giungla”): no, non è questo il campo in cui cercare paragoni.
Proviamo con un altro campo. Da un po’ di anni, Ligabue tenta di confrontarsi con la canzone d’autore, con esiti purtroppo funesti (ricordo una cover di “Creuza de ma” da vilipendio ed un duetto con De Gregori che ha massacrato “Alice”). Allora c’è stato un progresso nei testi? Niente, il livello rimane lo stesso degli ultimi album, il che significa nazional-popolare al massimo grado, con qualche lamentela generica alla “piove, governo ladro” e due-tre parolacce strategiche per darsi un tono. No, se provassimo a classificare “Made in Italy” come “canzone d’autore” non varrebbe nemmeno la pena di scriverne.
A questo punto, qualche appassionato che abbia letto le ultime interviste del Liga potrà chiedersi: “Ma questo è un concept album! Possiamo darne una lettura in questo senso?” Ecco, conviene togliere subito di mezzo anche questa sovrastruttura: non serve azzardare paragoni con Tommy o Rael, ma nemmeno con il più recente Jesus of Suburbia. Il legame tra i pezzi praticamente non esiste, fatta salva la sequenza “Quasi uscito” - “Dottoressa” - “I miei quindici minuti” - “Apperò”. Non c’è una storia, non c’è un’evoluzione del personaggio e il punto di vista di Riko, il protagonista dell’album, è sempre e comunque sovrapponibile a quello di Ligabue. No, non è nemmeno questa la strada.
Questo album può trovare collocazione solo nel grande calderone del “pop”, quello della musica di intrattenimento da cui non ti aspetti niente di più che un sottofondo più o meno gradevole. Questa vocazione è accentuata dalle scelte musicali del Liga, che si adegua alla moda del revival Anni Settanta e, in molti arrangiamenti, recupera sonorità da discomusic, con i fiati e i giri di basso occhieggianti al funky, mentre in altri pezzi si va ancora più indietro nel tempo, con reminiscenze rockabilly e boogie. Da notare anche un curioso debito verso i Men At Work di “Land Down Under” in “I miei quindici minuti”. Da un certo punto di vista la scelta paga: alcuni brani possono risultare anche divertenti, e questa leggerezza consente di mettere da parte, almeno per qualche minuto, il Ligabue troppo-serio-perché-troppo-preso-da-se-stesso che va in giro ormai da decenni.
Per inciso, qualche vecchio appassionato avrà notato il ritorno nella band di Max Cottafavi, chitarrista storico dei primi tre album di Ligabue: un bravo musicista che, purtroppo, non viene sfruttato a dovere vista la svolta stilistica di cui sopra.
Ci sono, invero, tre pezzi che si staccano dal gruppo e si pongono ad un livello qualitativo superiore. Non a caso, sono tre brevi frammenti acustici: “Meno male”, “Quasi uscito” e “Apperò”, l’ultima con un ukulele rubato a Israel Kamakawiwo’ole. Una sorta di “ora d’aria” del Liga, che per un attimo smette di pensare ai passaggi in radio e cerca di mettere qualche emozione tra i suoi accordi.
Tiriamo le somme. È il momento di dare un voto a questo disco. Come si posiziona? Beh, assodato che è pop, possiamo metterlo anche un gradino più in alto rispetto a concorrenti diretti come i Modà o Nek, ma sicuramente è lontano anni luce da chi il pop lo sa fare davvero, come un Pharrell Williams o una Lady Gaga.
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