Non c'è un motivo particolare ma le ore di questa giornata fin dal primo mattino sono state piene, rotonde, sugose, pregne di insensata e sublime carica positiva. Una corsa sulla la montagna di casa, Cima Marzola, con una morbida ed innocua pioggia a tamburellarmi il viso e ora, dopo un paio di ore, la giornata è esplosa di luce e mi sento come se fossi in un carica batterie. Forse più tardi vedrò una ragazza: voglio illudermi non sia psicolabile e stronza come lo sono state le ultime. Spaparanzato al sole con una birra in mano realizzo che sto vivendo ore succose come un frutto maturo e fresco sul quale è impossibile non voler affondare i denti, morbide ed invitanti come un seno sul quale, dopo averci giocato per un po', ci si vorrebbe infine addormentare dopo una notte di passione. Capita di trascorrere delle ore in totale armonia. Succede così, inaspettatamente. Ci cadiamo dentro e ci dimentichiamo di tutto lo schifo quotidiano nel quale abbiamo imparato, per mera sopravvivenza, a nuotare. La mente umana tuttavia è stronza e spesso se non c'è un evento particolare a picchettare quelle ore, oltre all'immenso senso di pace e benessere che ci investe, ce le dimentichiamo e la stridula sveglia del primo lunedì se le porta via. Per sempre.

Credo sia questo il motivo per il quale ho sentito la necessità di strappare un foglio di carta per scrivere velocemente, tra un sorso e l'altro di un'ottima Porter, queste righe sbilenche. Il resto, mi dico, verrà da sé.
Lucinda Williams e il suo ultimo disco la scusa con la quale voglio legare questo microscopico e prezioso granello di vita alla memoria; un tentativo per far sì che non cada nello sciacquone dei bei ricordi perduti.

Canzoni blues, southern e folk minimali, come “Lousiana Story”, basate su un semplice arpeggio e la voce ruvida, melanconica e passionale sembra siano state scritte appositamente per essere la colonna sonora di questa giornata. Si tratta di un lavoro di qualità: lo dimostra il fatto che una stupenda farfalla nera e arancio ha deciso di spendere una fetta della sua sì breve vita per posarsi qui vicino a me per sentire una trentina di minuti di ottima musica. Sbatte le ali e mi ricorda il pubblico, sì c'ero anch'io, di mercoledì scorso in provincia di Como a Pusiano. Un piccolo mare di farfalle che ha battuto le ali a tempo quando la Williams e la sua band ci ha infine salutato con la cover di Neil Young “Keep On Rockin in the Free World”. Un migliaio in un parco con una luna piena come cornice della sua prima visita in Italia per uno dei concerti più belli ai quali abbia assistito negli ultimi tre anni: dietro solo a Gov't Mule e The Dream Syndicate. Di “The Ghosts of Highway 20” ho preferito i pezzi più cadenzati e ipnotici rispetto a quelli maggiormente ritmati come “Bitter Memory”, citato solo per dare un metro di paragone a chi ha già ascoltato questo lavoro. Penso alla title track con le sue linee melodiche semplici ed avvolgenti ben resi dal lavoro della sei corde di Mathis. Cullato dalla sua voce mentre “Can't Close the Door On Love” volge al termine, con un vento caldo a soffiarmi sui capelli un alito tiepido, la vista delle cime del Brenta a lucidarmi gli occhi mi sono addormentato e ho dormito saporitamente facendo scivolare la birra sulle lastre inclinate del giardino. Lentamente, come la sezione ritmica e lo scorrere del liquido ambrato fino all'erba, le mie palpebre si sono serrate. Il disco, è un doppio, l'ho fatto ripartire ancora un paio di volte e quella sensazione di benessere si è diffusa in modo ancora maggiore. Riparte la tristissima “Dust” dedicata dalla cantautrice al padre scomparso e ci ripenso anch'io al mio che mi è stato strappato due anni fa. Tuttavia non sale quel magone che di solito mi si attorciglia come filo spinato alle budella; stavolta non mi sembra di deglutire delle fottute lamette da barba. Mentre lei canta e ricorda io batto il tempo e rivivo i tanti bei momenti che ho trascorso con lui con un accenno di sorriso sulle labbra e giusto qualche innocua lacrima, come giusto che sia. È un disco godibile fin da subito e che tuttavia rientra nella categoria di quelli che abbisogna di svariati ascolti per riuscire a rendere al meglio. L'unica pecca che mi sento di muovere è dovuta alla lunghezza forse eccessiva del lavoro. Dieci pezzi in un unico disco sarebbe forse stata una scelta migliore, ma queste sono inezie e oggi non sono proprio in vena di critiche e di voti.

Ora, che sono trascorse alcune ore dall'ultima riga, sento che si sta tornando lentamente alla normalità. Sono nel pieno della cosiddetta golden hour. Le ombre si allungano: il sole si avvicina a piccoli passi al tramonto ed inonda tutto di una luce avvolgente, morbida ed in affascinante declino. La luce perfetta nelle sere d'estate senza nuvole che fa credere a noi, piccoli stronzetti presuntuosi con in mano un pezzo di plastica, di essere fotografi quando invece tutto il merito è dello spettacolo che non siamo nemmeno in grado di goderci in silenzio, troppo impegnati dal doverlo condividere subito con orde di amici sconosciuti. Sì, sto tornando acido. Meglio spegnere lo stereo, chiuderla qui e salutarvi.

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