Sicuramente dal connubio Mogol-Battisti sono uscite grandi canzoni, sempre disimpegnate e leggere, ma, a un certo punto, bisogna vedere dove finisce il genio (ammesso che ci sia stato) e dove inizia la sòla. In un decennio come quello degli anni '70, con un fermento sociale e una voglia di partecipazione pubblica che non aveva avuto precedenti, il trincerarsi dietro una questione privata così irrisolta e un sentimentalismo così insopportabilmente ipertrofico, lo ha reso un'icona pop e un simbolo nazional-popolare anche controvoglia. Le canzoni della coppia Battisti-Mogol sono, in linea di principio, un po' tutte come "il mio canto libero": riferirsi alla generazione degli allora trentacinque-quarantenni, non fare mai un passo in più, dare il problema e mai la soluzione per via della santissima condizione del "no, perchè no". "Capirle tu non puoi, tu chiamale se vuoi, emozioni", ok, e quindi? Quali emozioni? Me lo spieghi in altri termini o no? No. E' il mito della generazione fregata, che si lascia fregare e che a ciò risponde con una dose di melassa amorosa stucchevole e allo stesso tempo rassicurante. Prima di ascoltare un pezzo di Battisti, anche se lo hai sentito e risentito cinquanta volte, ci si aspetta sempre tanto ma poi finisci per accontentarti. E capisci che quell'accontentarti era ciò che cercavi da lui. Battisti sarà sempre generazionale, trasversalmente condiviso, e non è un caso che lo citi Renzi tanto quanto Salvini. Citarlo vuol dire sfruttare l'empatia di far parte di quella storia lì, di sfruttare quel lamento esistenziale così scarso dal punto di vista cantautorale ma così efficace da un punto di vista epidermico. Battisti ci sarà sempre, a discapito del tempo, della morte, dei cambiamenti sociali e politici, delle mode. E ci sarà sempre proprio perchè generazionale, proprio perchè incarna il megafono di un tormento esistenziale pragmatico e rassicurante, eticamente inattaccabile, culturalmente disinteressato. Auguri.
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