Ostinatamente proviamo ad amarlo ancora. Periodicamente. E periodicamente c'incazziamo, e molto piu' di rado godiamo. Se il bistrattato e semisconosciuto dvd dall'orripilante titolo “classica&jazz” era opera comunque piu' che degna, questo disco, un disco vero e proprio, questo “il contrario di me”, ancora una volta non convince in pieno. Se Dalla rimane un animale di pura musicalità, ed a tratti ama ricordarcelo, piu' spesso mette in mostra i difetti evidenziati nell'ultimo ventennio, ovvero da quel “cambio” che si portava quel titolo simbolico e definitivo.

Effettivamente Dalla, da quel lontano anno, è “cambiato” davvero, e non poco. È cambiato il modo di scrivere e soprattutto il modo di cantare. Non che la sua voce sia diventata brutta, ma è proprio il modo di affrontare i testi, di “tagliare” la metrica che è cambiato. D'altra parte anche Lucio, come Vasco, ormai dei suoi dischi scrive pochissimo, e si sente. Eccome. Domanda irrispondibile: come è possibile che chi ha un talento d'autore di questo calibro scelga, con solo apparente comodità, di mettersi in mani altrui, e oltretutto mani quasi sempre meno capaci? Così qui ci tocca cuccarci una lunga serie di inutilissimi coautori, da grandi co-firme già note (Mariani, Ferro, Costa... insomma... il solito giro, neanche malvagio), al nuovo “innamoramento” musicale di Lucio, quell'Alemanno che pare essere personaggio capace, ma non troppo, e certamente meno del protagonista. Per farla breve: Lucio cade nell'errore di Vasco, di Pino Daniele e di tanti altri esponenti del cantautorato piuì o meno classico: mette insensatamente il proprio talento nelle mani di altri, non si sa se per far meno fatica o se per assecondare l'apparente esaurimento della vena artistica. Io, personalmente, sono tra quelli che ritengono che le vene non si esauriscano, ma sono le condizioni di vita (e cerebrali) degli artisti che subiscono pericolosi ammortamenti. Se a Pino Daniele consiglierei una casetta di sessanta metri quadri in centro a Napoli, con tanto di Stratocaster e niente Fabiole in giro, così a Lucio Dalla consiglierei di chiudersi in una bella mansardina bolognese, roba studentesca, con tanto di piano elettrico, foglio e penna. Niente computer, niente alemanni, niente sovraincisioni barocche di quattrocento tracce. Voce e piano, per poi aggiungerci in studio, dopo, una chitarra, un basso, una batteria e una tastiera. Sono certo che verrebbero fuori delle belle canzoni, magari non i grandi capolavori del periodo d'oro, ma semplicemente delle belle canzoni. Guardate Fossati, Conte, Battiato e De Gregori: firmarsi le proprie pagine è prova di dignità, oltre che di coerenza artistica. Essere riconoscibili è bello, anche per se stessi, o almeno così dovrebbe essere...

Tornando al disco, si possono segnalare alcune cose buone, comunque, a prescindere dalla scelta (di puro marketing ma spacciata per artistico/inevitabile) di vendere il prodotto in edicola a prezzo -finalmente- ridotto. La prima cosa buona, e buona in assoluto, è la mancanza della solita paraculata da classifica (le “attenti al lupo”, “canzone”, “ciao”, ecc...), e questo è già un bene, dal momento che lascerebbe supporre, almeno, l'intenzione di sfornare un prodotto, in qualche modo, “d'artista”, e non solo da animale estivo e festivalbariero. Poi una certa rifinitura negli arrangiamenti, anche se qui e là ridondanti (come spesso è accaduto negli ultimi vent'anni), che rende il ciddì un disco che “suona” piuttosto bene nello stereo. Poi un paio di canzoni oggettivamente buone, come “Rimini” (divertente e realmente “dalliana”), “Malinconia d'ottobre” (non certo un capolavoro, ma piu' che ascoltabile), o anche la “Lunedì” che forse è stato un tentativo fallito di hit estiva, ma che rimane un buon brano anch'esso “dalliano”, persino con echi del periodo “ron/stadio”. Deludono “due dita sotto il cielo”, canzonetta pseudotenorile dedicata a Valentino Rossi che, comunque la si pensi, merita di meglio, la melodicissima e banale “la mela”, oppure l'inutile duetto “i.n.r.i.”.

Chiudono il disco “come il vento”, ballata decente ma che non s'invola mai come dovrebbe, e “ativ”, che ha un buon incedere di strofa su un buon ritmo jazzy e un riff di piano gradevole. Purtroppo dietro la strofa arriva un ritornello non all'altezza, così, per chiudere in maniera evidentemente simbolica un disco che promette e non mantiene. O che, almeno, non mantiene tutto quel che sembrava promettere (...forse solo a noi che perennemente c'illudiamo...?).

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