Rimurginavo in questi giorni su cosa si muoveva musicalmente in Italia nell’anno domini 1970 e agli LP di un certo spessore pubblicati in quel periodo. Beh... Lo si sa che razza di carichi giravano... “La Buona Novella”, “L’Isola Non Trovata”, “Il signor G”, i battistiani “Emozioni” e l’ancora chiuso nel cassetto ma già ultimato “Amore Non Amore”. Poi le storie un po’ più spartane, contadine e provinciali di Endrigo (il live “L’Arca Di Noé”), Lauzi (l’album omonimo, perla d’autore quasi introvabile) e Jannacci (“La mia gente”). Qualcun’altro muoveva timidamente i primi passi mutando le proprie “aurore” e genesi beat, verso il neonato progressive e la stessa proto-Forneria (all’epoca “I Quelli”) dava il suo contributo seminale ad alcuni degli album citati sopra.
A Bologna un bizzarro giovanotto bassino e irsuto, che dimostrava più dei suoi effettivi ventisette anni, si era già fatto notare qualche Sanremo prima, passando quasi inosservato davanti alla massa della bella canzonetta e ammiccando al jazz e al blues, aveva tentato in qualche modo di portare il suo contributo al vecchio repertorio neomelodico dell’italietta cattoconservatrice di quegli anni.
Nelle grazie di quest’ometto c’era già profumo di trasgressione musicale. Era già oltre.
Diversi anni fa, nell’innocenza del mio periodo adolescenziale, mentre mi avvicinavo cauto alla canzone d’autore italiana, grazie a ricerche bibliotecarie, lessi per la prima volta “Terra Di Gaibola” (secondo album dopo “1999”, pubblicato quattro anni prima) nella discografia di Lucio Dalla e non potei far altro che immaginarmi qualcosa di esotico, un paese immaginario di omeriche gesta o un mondo citato in qualche viaggio oltremare di mitologici eroi di ulissiane memorie.
No, macché… ecco che torna la provincia. Gaibola è semplicemente una frazione felsinea dove Lucio in tempi remoti trascorreva la sua spensieratezza tra amici e campetti di calcio.
Il disco? L’ho ascoltato attentamente e mi ha colpito in pieno petto. Eccletismo, sperimentazione (dosata) e genio ribelle, capisaldi che renderanno Lucio ciò che sarà negli anni successivi.
Alcuni brani che diverranno famosi, ”Il fiume e la città”, pubblicata anche l’anno successivo come B side del 45 che lo consegnerà al successo sanremese di “4 marzo 1943“, poi “Sylvie”, “Il mio fiore nero”, riuscitissima cover di “Girlie” pubblicata originariamente pochi mesi prima, dagli sconosciuti Peddlers e portata al successo, sempre nella primavera del 1970 anche dalla Strambelli, in arte Patty Pravo, “Occhi di ragazza”, già interpretata dall’amico di Monghidoro e un altro celebre pezzone jazz degli anni trenta di Perkins, “Stars Feel On Alabama”, in cui le doti di clarinettista saltano all’orecchio immediatamente.
Altre sferzate di intuizione, il blues un po' sporco di “Fumetto”, il soul non-sense in lingua “dallesca” di “Abcdefg” e quel beat tinto a pillole psichedeliche di “Africa” e “K.O.”
“Non sono matto o la capra Elisabetta” rappresenta invece il suo esordio ufficiale in veste di cantautore. Sarà l’unica sortita a penna e calamaio, prima di buttarsi a capofitto nel 1977, a scrivere completamente solo, quell’opera ineguagliata intitolata “Com’è Profondo Il Mare”.
In quest’album, non troverete appunto quel Dalla dell’epopea d’oro, per intenderci, il pluridecorato periodo “Stadio” 1977-1983, con le incursioni di chitarra elettrica di Ricky Portera e la possente batteria di Giovanni Pezzoli (“Disperato erotico stomp”, “Futura”, “Anna e Marco”, “L’anno che verrà” , “Balla balla ballerino”, “Ma come fanno i marinai”, “Telefonami tra vent’anni”, “1983”…), ma neppure quello delle evergreen portate in hit parade negli anni successivi (Washington, Se io fossi un angelo, Caruso, Attenti al lupo, Canzone…). Vero è pure che “Terra di Gaibola”, all’epoca ignorato e quasi dimenticato, venne reso sdoganabile e godette di una meritata ripubblicazione solo vent'anni più tardi, dopo che Lucio conobbe il vero consenso di pubblico.
Ai classicisti di questo Dalla post-settantasette una certa ostilità risulterebbe già evidente, se ascoltassero pure la trilogia del periodo Roversi (1973-76) e storcere quindi il naso anche di fronte a “Terra Di Gaibola”, non risulterebbe difficile. L’audiofilo più convinto ha invece dalla sua, una certa predisposizione all’ascolto in toto di un’opera, ad un’analisi più specifica e accurata.
Ecco perché andare per un momento oltre, significa avvalersi del tentativo di sondare questo piccolo gioiello, da ripescare per alcuni o da scoprire a nuovo per altri, fuori da certi schemi canonici, partorito da quell’intelletto creativo che fu quel “bolognese volante”.
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