Ballard, se vuoi capire il post punk, devi leggerlo per forza, almeno così dice quel critico depresso che lo cita ogni tre per due, io però niente, nisba, nada. Sarà che quando mi dicono di fare una cosa mi viene di non farla o sarà che il titolo di un suo romanzo è lo stesso del brano che apre il mio disco preferito di quando ero ragazzo e quel titolo per me è talmente perfetto che, avendo paura di rovinare tutto, con il signor Ballard l'ho chiusa li. Lucrecia però, che è una vera capish, e che, evidentemente, non ha le mie fisime, figurati se a uno come lui non ci sbatte contro. Così, un giorno legge una short story dove si racconta di una statua musicale che, destinata a essere collocata in centro città, viene però rifiutata dai cittadini a causa dello strano aspetto e dell'altrettanto strana musica che produce. Confinata nel giardino di un notabile del luogo, la statua acquista col tempo capacità di movimento e cresce sia in altezza che in larghezza fino a quando, raggiunto il doppio della dimensione originaria, viene distrutta e resti e detriti vengono rivenduti a un deposito di rottami. Dopo dieci mesi i cittadini si accorgono con orrore che dal nuovo palazzo di giustizia proviene la stessa musica che un tempo proveniva dalla statua. Come è possibile? Oh, niente di strano, senza che nessuno lo sapesse i resti della statua sono stati usati come materiale di riciclo per la costruzione del palazzo. Ok, forse questa storia significa che l'essenza hai voglia a distruggerla e a confinarla, tanto in un modo o nell'altro torna sempre, oppure forse significa altro, chissà? In ogni caso Lucrecia prende nota, figurati se non lo fa...

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Che Lucrecia è una che fa un sacco di cose, questo, quello, quell'altro. E' un'ingegnera, ad esempio e suona nelle grotte e fa ricerche sul campo e raccoglie istanti e lavora la ceramica e si fa i vestiti da sola, il che vale a dire che è una che fa i compiti. Ma se la guardi negli occhi vedi un animaletto furbo, un elfo dispettoso, una bambina che fa la linguaccia, tutta roba che coi compiti c'entra quasi niente e che finora nei suoi dischi avevamo visto poco o punto. Intendiamoci Lucrecia ha sempre fatto roba bella, ma sempre un po' troppo precisina. In “No era solida” però le cose cambiano e guardate, non si tratta di un discorso estetico, ma piuttosto del fatto che mentre sei in spiaggia e col piedino consideri se l'acqua è troppo fredda oppure no arriva qualcuno e con un calcio nel sedere nell'acqua ti ci butta. Perchè se questo è un disco molto pensato nei suoi presupposti, i soliti compiti della solita brava ragazza, è anche vero che è stato realizzato fidando nella buona stella della consegna immediata, un ciak e basta e buona la prima. Del resto far bene i compiti non significa forse mettere a posto le cose per poi eventualmente scombinarle meglio? Se poi volete sapere di che morte dovete morire, allora vi dirò che “No era solida” è loop ghiacchiati, bignami rumoristico e voce da strega. E avanguardia dura e pura di quella che devi averne voglia, se no ci sbatti il grugno. Il canto, per dire, agisce quasi sempre in forma di vocalismi astratti e la musica, beh la musica è come minimo irrespirabile. Ultima cosa, Lucrecia non è sola, ma in patnership con una certa Lia, il che sarebbe anche normale. C'è un piccolo problema però, Lia non esiste.

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Chiusa nel seminterrato avantgarde Lucrecia smanetta sulle macchine del suono, sgrana le perline del rosario, unisce a modo suo tutti i puntini. L'idea è quella di mettere in scena il caos dell'anima e quelle perline e quei puntini altro non sono che suggestioni catturate da un sesto senso sempre acceso. Il primo puntino perlina è la ricerca di una consegna più libera del canto. Così Lucrecia, dopo aver ascoltato per tutto un pomeriggio la favolosa regina del griot Fanta Damba, improvvisa d'inpulso una lallazione stregonesca fatta soltanto di puro suono. Immaginate una tempesta perfetta con sussurri, lampi e glossolalie a scaricarsi nell'aria. La libertà della voce porta Damba nel mondo di Lucrecia che, certo, è un po' come portare il sole nel ghiaccio, ma la connessione è tale che quel che abbiamo non è più Lucrecia e non è più Damba, ma una specie di entità sconosciuta che è il primo piccolo passo nella costruzione di quello che di solito chiamiamo alter ego, oppure alias, oppure Ziggy, oppure Vattelapesca...Il secondo puntino perlina è una poesia di Gloria Anzualda dove si parla dell'incontro con una entità astratta. Ed è a questo punto che Lucrecia pensa: la voglio anch'io una entità astratta e quindi fingerò che nel seminterrato ci sia qualcuno a collaborare con me e quel qualcuno lo chiamerò Lia...

Lia però ha bisogno di un modello e il terzo puntino perlina consiste nel trovarne uno, roba che per una capish come Lucrecia ci vuol niente. Ha appena letto “Un soffio di vita” di Clarice Lispector e il soffio di vita in questione è quello che un creatore dona alla sua creazione/creatura. Il risvolto Adelphi ci informa che i due comunicheranno tra loro con “frasi sconnesse come in sogno” fatte di “idee allo stato grezzo, resti della demolizione di un'anima, estasi provvisorie”. Bene allora, è deciso, Lucrecia sarà il creatore, Lia la crezione/creatura. Chiara anche la missione da compiere, una specie di stagione all'inferno. “No Era Solida”, infatti, è un disco da ascoltare a notte fonda soffocando maledizioni. E se alcuni momenti ipnotici sono come vortici dove non sei che un puntino nel mezzo, la sensazione prevalente è quella di essere bloccato in un vano senso d'attesa mentre mille ingranaggi girano a vuoto. Solo il canto passa per la porticina stretta con Lucrecia che sussurra nelle crepe della notte e si dibatte nel caos...

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Ma ora facciamo un passo indietro alla ricerca di un altro pezzettino di Lia. Siamo in un museo di Barcellona e Lucrecia sta preparando una delle sue tipiche performance da ragazza iper capish e, mentre è li che piazza microfoni a destra e a manca, d'improvviso sente un clic che conosce piuttosto bene. E' in quel momento che si accorge della statua e se ne sente addosso lo sguardo, del resto, inchiodati a una specie di enigma, certi volti parlano proprio a te...

E allora Lia, Lia che ha attraversato i paesaggi interiori come pura essenza (“No era solida”, non era solida) adesso è quella statua e parla e la cosa fantastica è che racconta il viaggio, ovvero racconta il disco, ora però niente lallazioni, niente gramelot del disagio, ma uno spoken word da brividi e un cazzo di poema. Che alla fine in una sorta di crash emotivo la statua alza la testa, il collo di marmo le si spezza e dalla ferita i ricordi si spargono sul pavimento urlando...

I miei ricordi -dice- stai attento a dove li butti perché ovunque si mescolino continueranno a urlare. Ok Lia, Ok Lucrecia, Ok Fanta Damba, Ok entità astratte, adesso abbiamo davvero chiuso il cerchio e quei ricordi sono come la statua del racconto di Ballard che pur distrutta, mescolata, sparpagliata, continua a mandare la sua misteriosa musica.

E comunque, merda, che testo, una sensazione quasi Jim Morrison quando hai sedici anni e sei completamente digiuno di poesia. E comunque, merda, che pezzo, su una base ambient algida e severa Lucrecia declama i suoi versi fiammeggianti fino a che rimane solo l'inquietante pulsare di un ancor più inquietante macchina del suono che lentamente va a spegnersi. E' il modo di Lia di prendere commiato, penso, mentre le sue parole ancora disegnano nell'aria un pezzettino di invisibile che ben presto si dileguerà.

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