“Trentatré variazioni su un valzer di Diabelli”; ovvero come riuscire a costruire un sontuoso, luminoso monumento in musica partendo da pochi granelli di sabbia...

Beethoven, il grande architetto del suono, riuscì a comporre tra il 1820 e il '23 una di quelle opere destinate all'immortalità ma basate su un materiale di partenza futile, semplice, banale. Un valzer alla moda orecchiabile e allegro diventò per lui cellula da plasmare, modificare, elevare al quadrato, al cubo, all'ennesima potenza. L'opera rappresenta l'ultimo grande risultato compositivo di Beethoven per il pianoforte.

Le circostanze della sua creazione sono curiose: nel 1820 il compositore ed editore musicale Anton Diabelli approcciò alcuni compositori e virtuosi viennesi ed austriaci (tra cui Czerny, Schubert, Moscheles, l'undicenne Liszt e ovviamente Beethoven), con un suo valzer semplice ma accattivante, chiedendo ad ognuno di comporne una variazione, allo scopo di pubblicare un'antologia sotto il nome di Diabelli stesso. Beethoven si rifiutò di comparire in un lavoro collettivo del genere e si propose per comporre un intero set di variazioni. Diabelli fu deliziato dall'idea, e gli offrì 80 ducati per un set di sei o otto variazioni. Ma Beethoven, evidentemente affascinato dai risultati compositivi ottenuti con le prime variazioni, non poté arrestare il suo slancio creativo, e ora l'umanità può disporre per sempre di queste 33 gemme.

Ludwig va alla ricerca di ogni più riposta potenzialità sonora contenuta nel Tema, per sviscerarne le implicazioni celate, impensabili, sotterranee. Da qualcosa di innocuo e spensierato, il suo genio visionario sa intuire, creare interi mondi paralleli, e ne ricava “un fiume di idee musicali che corre impetuoso, si inabissa in profondità carsiche, riemerge alla luce con forza serena e alla fine evapora nelle sfere celesti di un Minuetto” (Giorgio Pestelli).

I rimandi ai suoi predecessori sono molteplici, e non si può fare a meno di accostare questo capolavoro ad un altro grande monumento del passato, le “Variazioni Goldberg” di Bach.

Simili nella forma, nell'estensione, nell'ispirazione, questi due clamorosi grappoli di perle vedono due jazzisti ante litteram giocare con la loro immensa fantasia, e “improvvisare” su materiale di partenza alla fin fine concettualmente equivalente ad uno “standard”, quasi i temi fossero una “Night And Day” o una “All The Things You Are”. Ma ovviamente l'apparente estemporaneità delle note suonate nasconde in entrambi i casi un rigorosissimo filo logico e compositivo, di una severità teutonica, di una perfezione irridente, estetiche e poetiche equazioni multivariate di fibra sonora.

Durante l'ascolto delle Variazioni Diabelli, quando l'aria si fa tersa e rarefatta, sembra di cogliere un affettuoso saluto, quasi una strizzata d'occhio, al Mozart delle Sonate per pianoforte, e lo stesso Mozart viene proprio citato nella Variazione XXII, in cui è riconoscibilissima l'aria cantata da Leporello in “Notte e giorno faticar” del “Don Giovanni”. Altra ombra di passaggio quella di Bach nella “Variazione XXIV: Fughetta: Andante”, mentre nella “Variazione XXXI: Largo, molto espressivo” si avverte addirittura una anticipazione di uno Chopin ancora da venire, un lirismo e un pathos degni di un Notturno del grande polacco. Questa modernità è davvero spiazzante, ma non deve stupire, poiché come molte altre opere di genio, le Variazioni Diabelli sono sia riflessione sul passato (e relativa sintesi stilistica), sia un portentoso sguardo verso il futuro.

Molto importante sottolineare l'organicità di queste Variazioni, suonate senza soluzione di continuità e collegate tra di loro in modo assolutamente perfetto e con grande ironia, alternando umori, sensazioni ed emozioni. Ogni microscopico aspetto del valzer di partenza viene analizzato, e convivono gli aspetti eruditi e popolari, sereni e tenebrosi, percussivi e melodici. Ma queste opposizioni non vanno pensate come arbitrarie, bensì come governate da un'intelligenza sovrana, che si diletta a giocare con tutto perché ha compreso tutto.

L'interpretazione che mi sento di consigliare è quella registrata nel '96 per la RCA Red Seal dal giovane pianista finlandese Olli Mustonen, dotato di tecnica brillante (quel legato magico, à la Glenn Gould) e di grande maturità e autorevolezza interpretativa. A colpire nel segno è quel senso di sfrontatezza e freschezza con la quale riveste ogni nota.

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