Sono passati molti anni, troppi.

Ho già detto di una bravissima concertista mia parente, zia G., che oggi non suona più in pubblico per motivi di età e di salute (i pianisti si massacrano la colonna vertebrale, tra l’altro) ma che negli anni mi ha sempre riservato un posticino in prima fila, se appena possibile, ai suoi concerti romani. Una bella soiree pianistica di trentaquattro anni fa, ad occhio e croce, organizzata dall’Ambasciata americana per non so quale premio da consegnare, molti ospiti illustri, un paio di ministri, tanti musicisti famosi ed il sottoscritto, sedici anni, a disagio in uno smoking di mio padre, che sarebbe morto di lì a poco, e lo sapevo benissimo.

Rachmaninov e Liszt, Chopin e Bartok, se non ricordo male, più di un’ora di musica stupenda, anche perché zia G. suonava davvero divinamente, i capelli raccolti come sempre sulla nuca, assorta ed assente per il mondo, con quel sorriso triste che ricordo benissimo. Applausi a non finire e due bis, l’uno – l’Allegro Barbaro di Bartok – con grande effetto di contrasto, e l’altro… l’altro ha cambiato la mia vita.

Otto, nove minuti sospesi nel tempo e nello spazio, il tentativo inutile di non piangere, ma non ero solo io a commuovermi. Una esecuzione lentissima e trasognata del Primo Movimento della Sonata n. 14 (‘al Chiaro di Luna’) di Beethoven, struggente e tesissima, incanto e dolore, l’onda del ‘piano’ e del ‘forte’ difficilissima da governare da parte dell’esecutore ma vibrante nel corpo e nell’anima dell’ascoltatore, rapito, inchiodato sulla poltrona. Il mistero della notte e della morte in un brano per strumento solista, forse il pezzo più melanconico - più 'dark' - di tutta la storia della musica, estaticamente sospeso in un valzer trasfigurato che non si può umanamente danzare, espressione suprema di una tristezza atroce e bellissima che è della vita stessa e non solo dell’amore taciuto di Ludwig per la sua allieva. Una bellezza assurda, che dalla sua prima esecuzione in poi hanno perfettamente ed interiorizzato gli ascoltatori di ogni tempo e di ogni cultura.

Per la cronaca, un famosissimo direttore d’orchestra ed io ci trovammo vicini nel successivo buffet, dopo che in bagno ero riuscito a ricomporre un volto più dignitoso e meno segnato dall’emozione (la malattia di mio padre non doveva essere estranea, temo). Mi accorsi di questo Signore al mio fianco, già un po’ anziano, solamente quando tentammo di prendere la medesima tartina, e restai senza fiato e senza parole, quella massa di capelli bianchi, quella presenza magnetica ed imponente, quel famoso volto simpatico davanti a me e con la stessa tartina tra noi. Mi fece un gran sorriso e si fregò la tartina, ovviamente, poi mi disse nel tipico americano ciancicato di New York: ‘Don’t you worry, I was moved myself’. Non ti preoccupare, mi sono commosso io stesso. Quando lo raccontai a zia G. ne ebbi in risposta un sorriso antico, credo fossero amici, ma quel valzer lei non me lo ha mai più suonato.

Il Signore dai capelli bianchi e scomposti se ne è andato qualche anno dopo, suppongo senza immaginare quale impressione avesse lasciato in uno spaurito ragazzo di sedici anni.

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