Un tripudio luminescente. È questa la sensazione che permea la Settima Sinfonia di Ludwig van Beethoven. Una sensazione di vitalismo estremo, di gioia strappata con rabbia ai propri fantasmi interiori. Come quelli della sordità, dell'incomunicabilità, della solitudine, forse. La Settima. La più dionisiaca delle Sinfonie del corpus beethoveniano, quella che Richard Wagner definì "l'apoteosi della danza".

Eppure la Sinfonia si apre placidamente, con solennità, quasi. Nel "Poco sostenuto", il "tutti" orchestrale fa da cornice ai fiati che intonano un tema di quieta e sognante bellezza. Ma da questi fiati emerge poco a poco una singola nota sussurrata da un flauto. Una nota solitaria che diviene man mano più breve, una nota che si spezzetta ribadendo se stessa e aprendo la strada a un tema di aerea serenità. Si apre così il "Vivace", con il flauto che s'invola in un clima acceso di luminosa voglia di vivere, di apertura gioiosa verso il mondo. Ma il dolore e la sofferenza sono anch'essi parte integrante della vita. E il secondo movimento, il celebre "Allegretto", sembra essere lì proprio a ricordarcelo. Un movimento lugubre dal ritmo di marcia, una processione silenziosa di fantasmi. Un movimento che si chiude con una aspra dissonanza, dopo che i clarinetti hanno fatto baluginare sulla voce soffocata degli archi un riflesso di speranza, come un abbandono fiducioso al perpetuarsi della vita. Ma il ritmo non può perdersi, e la musica riprende la propria frenesia nel "Presto". Uno scherzo dove gli archi accarezzano lievi un tema di vibrante vitalità, ripreso dai fiati, e quindi potentemente ribadito dai "fortissimo" orchestrali. Ed è solo con il Trio, indicato come "Molto meno presto", che la musica ritorna ad ondeggiare in acque più calme, cullata dal timbro morbido e meditativo dei clarinetti. Il finale, "Allegro con brio", è un vero e proprio baccanale. La massa degli archi ribolle in un tema prepotente e autoaffermante di vitalità gloriosa. Un trionfo della vita nato dalla fatica e dal dolore. "Perché solo attraverso la sofferenza si può giungere alla gioia", come scriveva Ludwig.

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