C'è sempre un certo timore reverenziale nell'accostarsi a Beethoven. Altri grandi della musica sembrano guardarti con più indulgenza: Mozart per la sua apparente leggerezza, Bach per la sua imperturbabile serenità, perfino il burbero Brahms sotto sotto svela una certa rude bonarietà... Beethoven no. Ti scruta con l'occhio torvo sotto una tempesta di capelli impazziti e pare dirti, più o meno: "Ehi tu, guarda che non me ne importa niente se sei un recensore dilettante; prova a scrivere qualche fesseria e io ti farò risuonare per tutta la vita nelle orecchie la Marcia Funebre dell'"Eroica"!". Che è meravigliosa, intendiamoci, ma non è proprio l'ideale come colonna sonora della propria esistenza, a meno di non essere del tutto masochisti. Prima o poi però un classicomane si trova per forza di cose a dover trattare di questo colosso, e un buon modo per rompere il ghiaccio può essere quello di evitare le opere più severe e monumentali, concentrandosi su un Beethoven un po' più "confidenziale" come quello cameristico.

La musica da camera, insieme alle Sonate per pianoforte, rappresenta una specie di laboratorio dove il genio di Bonn sperimenta le innovazioni che poi troveranno l'espressione più compiuta nelle Sinfonie e nei Concerti. In particolare i Quartetti per archi sono un filo conduttore che accompagna tutte le sue fasi creative, da quella giovanile ancora brillantemente post-mozartiana, a quella dissonante, complessa quanto sublime, degli ultimi anni di vita. Ma Beethoven lascia una traccia indelebile anche nella storia dell'altra classica forma cameristica: il trio per pianoforte, violino e violoncello. Nato nel secolo precedente e inteso allora più che altro come raffinato gioco strumentale, tanto da essere chiamato anche "Divertimento", il trio per piano e archi mantiene questo ruolo anche ai tempi di Haydn e Mozart, sia pure con maggiori difficoltà tecniche delle parti affidate ai tre strumenti. Solo con Beethoven il trio viene totalmente ripensato e assume i connotati di un'elaborata composizione di carattere quasi concertistico.

Dopo la prova generale ancora un po' acerba dei giovanili Trii Op. 1, la svolta decisiva è rappresentata dai due classificati come Op. 70. In particolare il primo in re maggiore, detto "Trio degli Spiriti", è un'opera personalissima e già proiettata verso il Romanticismo, anche se a grandi linee mantiene la classica struttura "a conchiglia" tipica dei concerti (e anche dei trii) mozartiani: tre movimenti, di cui quelli estremi (le valve) movimentati e quello centrale (la perla) più riflessivo e melodico. Qui però c'è un'evidente sproporzione, e non solo in termini di durata, tra una perla enorme e scintillante, e due corte valve, appena abbozzate, che dovrebbero racchiuderla. Sia l'iniziale "Allegro vivace e con brio" che il "Presto" finale sono bruscamente energici: raffiche di note ravvicinate costringono i musicisti a ripetute acrobazie, con gli archetti di violino e violoncello che sferzano sonoramente l'aria. In particolare nel primo movimento si percepisce una certa frenesia nell'esporre e sviluppare i semplici temi, come per raggiungere quanto prima il centro motore del trio, che è l'ispiratissimo "Largo assai ed espressivo" (il nome già dice molto). Questo è fondato su due nuclei melodici piuttosto semplici, ma la loro progressiva dilatazione, insieme al loro continuo evolversi in varianti sempre più drammatiche, dà a questo Largo quel clima così mesto e spettrale che spiega, almeno in parte, il nome attribuito all'intera opera. A questo riguardo però un bel contributo lo danno anche i leggeri trilli del pianoforte e i tremiti degli archi, che conferiscono a questo movimento un suono a tratti "inconsistente" e trasparente, qualità che si suppone siano tipiche degli spiriti. Circa vent'anni dopo troveremo simili effetti sonori nell'etereo Adagio del Quintetto per archi di Schubert.

Ben diversa è l'atmosfera che si respira nel Trio in si bemolle maggiore Op. 97, detto "Arciduca" in onore dell'Arciduca Rodolfo, uno dei tanti nobili che all'epoca si dilettavano con la musica, discreto allievo e amico di Beethoven. Solenne e complesso come un vero concerto, questo Trio comprende ben quattro movimenti, con una sequenza che anticipa addirittura quella della Nona Sinfonia. L'iniziale "Allegro moderato" è monumentale e assai ricco di temi melodici. Il principale è quello esposto da principio dal solo pianoforte, ma con il ronzio degli archi subito pronto ad unirsi e a rinforzarlo. Seguono innumerevoli affascinanti intrecci con gli altri temi che hanno origine durante questo lungo movimento. A questo punto, quando ognuno si aspetterebbe un "lento", ecco in agguato, proprio come nella Nona, lo "Scherzo", che non a caso si chiama così. Violino e violoncello iniziano a duettare timidi e circospetti, ma la tensione ben presto espode in un energico e trionfale intervento del pianoforte, ben sostenuto dagli archi. Segue l'atteso "lento" ("Andante cantabile"), ed è una di quelle melodie dolcissime, tipicamente beethoveniane, che all'inizio sembrano impalpabili (un po' come l'Adagio del Concerto per pianoforte "Imperatore"), ma poi acquistano sempre più consistenza nel loro sviluppo, che in questo caso è dato da una serie di variazioni, così fantasiose che nella terza il tema iniziale è già completamente trasfigurato. La splendida coda dell'ultima variazione conduce senza soluzione di continuità al finale ("Allegro moderato"), uno dei pezzi di musica più vivaci e lieti che Beethoven abbia mai scritto, gioioso come un rondò mozartiano, ma arricchito da una robusta e generosa fioritura di motivi che chiude in bellezza questo grande Trio.

Le interpretazioni dei due più famosi trii di Beethoven non si contano, quindi mi limito a suggerire come eccellente quella di Eugene Istomin (pianoforte), Isaac Stern (violino) e Leonard Rose (violoncello). Nella musica da camera spesso capita che anche i solisti più narcisi si adattino con inconsueta modestia al suono dei loro partners, ma qui c'è già in partenza il vantaggio che l'unica "superstar" è il violinista, accompagnato da due solisti comunque di ottimo livello, con un affiatamento assolutamente perfetto.

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