Film a tutt'oggi dimenticato dai più, "Lo scopone scientifico" risulta uno degli zenith creativi del cinema italiano di ogni tempo, superando gli stilemi della stessa commedia all'italiana e definendo, sotto certi profili, una via italiana al noir ed al grottesco che, purtroppo, non è mai stata seriamente considerata da addetti ai lavori, registi, sceneggiatori e produttori.

Per chi non avesse visto il film, o lo avesse dimenticato, riassumo sinteticamente la trama dell'opera, nel complesso assai lineare: una coppia di sottoproletari romani vive, assieme alla numerosa prole, in una baraccopoli alla periferia estrema della capitale. I due, con nomea di esperti giocatori di scopone, sono invitati da una ricca borghese americana e dal suo Segretario, in vacanza a Roma, a partecipare ad interminabili partite a carte nella villa di lei, mettendo come posta in gioco non solo i propri (esigui) denari, ma anche la speranza di un futuro più dignitoso e di un riscatto sociale. La coppia vincitrice - di cui non è il caso di anticipare l'identità - si crogiolerà per poco sugli allori, dato che l'inatteso finale del film getterà una luce sulfurea su tutta la vicenda.

Già il plot narrativo del film, delineato nelle sue linee essenziali, conferma l'originalità de "Lo scopone scientifico" rispetto a tanta filmografia italiana del dopoguerra, mescolando con equilibrio battute da commedia nera, il dramma dello scontro fra classi, analisi documentaristica delle macerie che si celavano dietro il boom economico, con un pieno controllo dell'intreccio, scritto dal mai troppo lodato Rodolfo Sonego.

A differenza che in altri supponenti film dell'epoca (non me ne vogliano ad esempio i fan(atici) di Pasolini, di Maselli) il messaggio contenuto ne "Lo scopone" viene veicolato in maniera apparentemente semplice e leggera, ma non meno incisiva sulla memoria dello spettatore: la vita come interminabile battaglia dell'uno contro l'altro, e, soprattutto, come un continuo susseguirsi di sopraffazioni, che mette in crisi non solo la vita di coppia, ma la stessa fiducia nei confronti del prossimo, denudando l'individuo come un soggetto dedito all'alterazione sistematica del reale, al bluff ed alla menzogna come mezzo per l'affermazione di sè.

Interessante notare come Comencini, spesso sbrigativamente descritto come il "regista dell'infanzia", quasi a sottolineare una sua fiducia verso i sentimenti dei minori e le loro potenzialità, metta in scena una storia in cui i giovani stessi agiscono secondo ancestrali codici di violenza, vendicando le frustrazioni dei genitori, senza realmente migliorare l'esistente (non male per un film realizzato in piena età della contestazione e rivolta giovanile). Altrettanto significativo il rapporto fra il messaggio del film, in cui l'uomo al dunque non ha speranza di salvezza, con la religione protestante-valdese dello stesso Comencini, così antitetica a quel cattolicesimo in cui l'individuo, specialmente attraverso le sue opere ed il suo lavoro quotidiano, ha sempre possibilità di redimersi dal peccato originale. In Comencini il peccato sembra inestirpabile, di generazione in generazione. 

Sotto il profilo tecnico, il film segna uno dei passaggi migliori della carriera di Luigi Comencini (spesso dimenticato quando si traccia la storia minima del cinema italiano del dopoguerra), ed una delle più convincenti prove attoriali di Alberto Sordi, nel ruolo, una volta tanto dimesso, del popolano che subisce i soprusi del potente di turno, e, soprattutto, di una Silvana Mangano restituita al cinema senza la bellezza della gioventù, ma con una carica drammatica e popolaresca che richiama i personaggi del miglior cinema neorealista. Simpatico e riuscito anche il cameo di Domenico Modugno. A ciò si aggiunga la partecipazione della coppia d'assi americana formata da Jospeh Cotten e Bette Davis per dare una patina di veridica internazionalità ad un film certamente consigliabile per gli appassionati del cinema d'antan, classico perché ancor oggi a qualcosa da dire ad ogni spettatore.

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