Ciao, piccolo uomo. Quanto tempo. Così tanto che avrei più di una cosa da dirti - ma visto che non capivi molto bene l’italiano, vorrei dirtelo con le parole di quella canzone. Una di tanti anni fa.
La cantava un certo Morrissey, conoscerai. E cantava le gesta di un teenager dentro un piccolo schermo. La star adolescente di uno show televisivo. Il fenomeno di una sola stagione.
Friday nights, 1969.
Esatto, proprio quella. Ti ricordi, come faceva?
‘Eri troppo grande per essere un bambino prodigio, e troppo giovane per recitare la parte del protagonista’.
Ti dimenticarono in fretta.
‘Una star a diciott’anni, e poi - d’un tratto - sei sparito’. E nessuno a chiedersi che fine tu abbia fatto, a parte me.
‘Little man, what now’?
Già, piccolo uomo. Che ne è stato di te? Mi chiedo.
Adesso lo so, ma per anni non l’ho saputo. Perché in effetti, da noi (ed è questo, il punto fondamentale: da noi) che fine abbia fatto Luismito non lo sa nessuno o quasi.
Fu quel Sanremo che qualcuno definì imbarazzante, forse il più imbarazzante fra gli imbarazzanti. Quello dei New Trolls con ‘Faccia di cane’ e del playback da cane, quello di Zucchero ancora nei bassifondi, quello di Francescone Di Giacomo che s’agitava sul palco in strane movenze inconsulte, mentre la bocca ingaggiava una disperata lotta con la voce di sottofondo. Affannandosi nell’inutile tentativo di andare a tempo.
Nel frattempo, tutti gli altri ballavano con le chitarre in spalla e premevano tasti a caso, perché c’era anche la base. Oltre alla voce. Magicamente, le chitarre suonavano senza jack e rullanti acustici appena sfiorati emettevano sensazionali boati elettronici. Perché tutto era possibile, in quegli anni fantastici.
E poi, lui. La chioma bionda sfolgorante, il papillon da sciogliere durante l’esibizione. E quel suo modo di ricordare Julio che doveva trasparire da tutto, a cominciare dal modo in cui reggeva il microfono.
L’avevano vestito da piccolo damerino, volevano farlo sembrare un adulto. Lui la disperata lotta non la ingaggiò col playback, ma con l’ultimo bottone della giacchetta che non voleva saperne di slacciarsi. Benché ce la mettesse tutta, per occupare quel palco come uno consumato. E per crederci davvero, in quello che stava facendo e cantando (in una lingua che a malapena conosceva).
Ma la sua missione non si limitava a quello. Doveva far sì che anche tu, ci credessi.
Stringeva il pugnetto e guardava deciso nell’obiettivo, mentre cantava ‘noi siamo quelli in cui tu puoi credere, i veri amici che tu non hai’. Pareva ti volesse convincere, quando ti diceva ‘devi venire con noi’.
Quindi, il celeberrimo atroce impareggiabile acuto - sospeso ad cazzum a tre quarti della canzone, perché doveva strappare gli immancabili ‘però che bravo ‘sto ragazzo che voce che c’ha sembra un adulto’ che sarebbero arrivati da casa.
Non bastò. Non vinse perché vinsero i Ricchi e Poveri. Inesorabili come la Juve che vince il campionato già a febbraio, plebiscitari come la Democrazia Cristiana, prevedibili come una cosa scontata da Prima Repubblica.
Da noi Luismito fu comunque un successo, anche se - appunto - per una sola stagione. Con quell’inno generazionale uscito nientemeno che dalla pena di Toto Cutugno. La risposta allo ‘stare amici di tutti’ del Ramazzotti di un anno prima, una cosa da cantare tutti insieme per colorare questa città. E poi vedrai che ti piacerà.
Venne quindi il tempo del successo in patria, e degli inevitabili musicarelli di produzione messicana che sbancarono il botteghino. Film in cui - manco a dirlo - interpretava la parte di sé stesso, davanti a processioni di aficionadas vogliose ai suoi piedi. Eppure, il suo personaggio era più complesso di quanto sembrasse. Aveva diversi lati.
A seconda di come lo inquadrassero.
Infatti una volta era inquadrato di fronte mentre tornava da un bagno nel Pacifico e si passava una mano fra i capelli, un’altra era inquadrato di spalle mentre si tuffava nella piscina di un lussuoso resort. Aveva 14/15 anni, ma ovviamente nel film era sempre in vacanza da solo. Come un adulto. Anzi, come un piccolo uomo.
Il più delle volte aveva quel sorriso smagliante a 175 denti (benedette le orecchie, che impedivano al sorriso di raggiungere la nuca). Un sorriso che fulminava le ragazzine - pardon, le piccole donne. Benché il suo cuore battesse soltanto per una. E si metteva col broncio se i genitori di lei non davano il consenso. ‘Ah, questi cantanti sciupafemmine… sono tutti uguali’.
Venne poi un altro tempo, quello di una carriera adulta. A consacrarlo nel predestinato ruolo di crooner latino, piacione e marpione quanto bastava per insidiare il trono di Julio. Successi internazionali, Grammy su Grammy, vendite faraoniche in Latinoamerica, arene stracolme in festa. E lo Stadio Azteca che non si riempiva così dai tempi di Italia-Germania 4 a 3.
Sontuosa e vaporosa (iper)produzione ebbe anche il pluripremiato Aries (estate ’93): un trionfo di atmosfere da superattico, funk patinato e westcoastiano adult contemporary per palati finissimi. Colonna sonora per flirt notturni di maschi che non devono chiedere mai, quando arriva il momento di portarsi a casa i trofei di un’intera giornata in spiaggia. Solo conquiste di un certo livello, s’intende.
‘Suave’ spopolò in tutte le classifiche da Miami a Buenos Aires, mentre da noi non arrivò. Da noi era troppo spietata la concorrenza di ‘What Is Love?’, di ‘Sei un mito’ e del balletto di Repetto, perché il piccolo uomo di una volta potesse tornare a lasciare il segno.
Ma altrove, tutti compravano (o si facevano mandare) i suoi dischi. Persino nel covo di Saddam, dicono, gli Americani rinvennero una copia di Segundo Romance: una raccolta di focosi boleros per serate speciali, col vino e le candele a illuminare il letto imperiale dell’hacienda.
Passava il grunge, passava l’hip-hop, passavano gli stili e le mode. Ma lui sempre lì, immutabile, aristocratico seduttore a dominare dall’alto il suo impero. Sfuggente e misterioso per giunta, tenacemente chiuso nel suo mondo di passioni da telenovela. Ogni tanto usciva, da quel mondo. Ma solo per ripassarsi una qualche attrice di telenovela.
E passavano gli anni. Il piccolo uomo ne aveva fatta, di strada.
A maggio l’hanno arrestato, il piccolo uomo. Pare abbia truffato il suo ex-manager per un milione di dollari. Cose che capitano, nulla di che. Ma abbastanza perché l’Italia (che un tempo l’aveva adottato) tornasse a ricordarsi di lui.
Ricordarsi.
Da una parte ho letto ‘Arrestato quello di “Noi ragazzi di oggi’. Quello.
Da un’altra parte, invece (e almeno): ‘Arrestato il cantante di “Noi ragazzi di oggi”. Tanto per ricordare che, dopotutto, quel piccolo uomo che allora ci passò davanti fa’ il cantante. Non un altro mestiere.
Ed è un po’ una metafora della vita: ti sbatti, ti sforzi di credere in quello che fai (o ti fanno fare - non importa), vendi dischi a milioni, riempi la bacheca di trofei, hai migliaia di spasimanti che ti aspettano alla porta, Saddam ha in casa un tuo disco…
…ma in eterno sarai ricordato come quello che cantò una canzone di Toto Cutugno trenta e passa anni fa.
Come se vedere il proprio nome abbinato a quello di Toto Cutugno non fosse già una condanna.
Come se ritrovarsi in manette dopo il mega-lifting brutale (qualcuno dice plastica) che ti ha trasformato nell’anello mancante fra Gabriel Garko e Massimo Oddo non fosse già una condanna.
Come se sentirsi ancora chiamare piccolo uomo non fosse già abbastanza pesante. E allora scusami, piccolo uomo.
Ma il fatto è che quando sei ormai troppo grande per essere un bambino prodigio, tornano a nominarti solo quando ti sequestrano piscina e Rolls-Royce.
O no?
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