Cosmica e personale questa freddura firmata Lycia, progetto di quell’uomo che vive nel rigore della morte interiore e si chiama Mike VanPortfleet. Non ci volevo credere. Erano gli stessi di giorni di Det Som Engang Var, di voglia di piagarsi l’anima. Giorni di suggestione piegati alle malevoli e spellate visioni altrui, nel bisogno di provare qualcosa che violasse l’anima, credendo che fosse vero.

Riascolto da grande quest’opera e le scorticature di VanPortfleet sono ancora vive, paranoiche, fresche per l’impossibilità di una coagulazione riuscita. Più che in fumi e oscurità, ampiamente evocate nell’abisso della terra scura di questo album, oggi mi sembra di vivere Guernica come quel volto (il secondo da destra, nella parte alta) ad osservare disastri sfigurati e situazioni che raschiano il fondo da sotto e non da sopra. Come un Faust sconfitto da Mefistofele, VanPortfleet vaga nel limbo di suoni dei generi gotici più disparati e messi insieme con incauta sapienza.

A prescindere dal discorso artistico, credo che stesse davvero male quando ha registrato questo album. I tempi bassi sono quelli dello svuotamento successivo al pianto, della consapevolezza di un grande male, dello smarrimento nei confronti del proprio essere. Cadenze estatiche che marchiano a fuoco ogni struggente momento, ricordano l’avanzare solenne di alcune marce mortali dei Dead Can Dance. L’atmosfera appartiene ad uno stato di coscienza difficile anche solo da immaginare, per un assideramento dell’animo che si attua in un contesto ambientale così distaccato da essere cosmico (ritorna questa parola). Plettrate a distanza lontana affilano suoni algidi e austeri di un altro mondo, post gothic rock. La magnificente alienazione di una voce distante crea rimandi folkapocalittici, mentre alcuni droni sintetici portano nel sogno questa sconfitta umana, così frustrata da non riuscire neanche a essere incubo. C’è anche del cattivo e lobotomizzante in questo pentolone in cui ribolliscono depressioni. Il pulsare lento e macchinoso dei colpi programmati sulle macchine inzacchera di schiavitù industriale tutto l’album che nel suo fluire, alla fine dà l’impressione di esser coperti dalla collosa tela di un ragno. Tutto d’un fiato fa male. Presi singolarmente, brani come l’apripista per l’inferno "And Through The Smoke And Nails" sono inquietanti e spiazzanti, utili per farsi ammaliare, traditori per la grande facilità che hanno a portarti dentro queste sabbie mobile. Tutto il resto sono lacrime di cui non voglio stare qui a parlarvi.

Capolavoro dimenticato. 1993.

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