Che Lyle Mays fosse un bravo tastierista, grande esperto di synth, non era da mettere in dubbio. Perchè di questo si tratta: un tastierista (o pianista se vogliamo) estremamente abile e discorsivo che si mette alla prova con un lavoro personalissimo, naturalmente prodotto dalla Metheny Group Production (etichetta Geffen), tanto per restare in famiglia.
Nell'album ci sono diversi validi musicisti come il bassista Steve Rodby, il chitarrista Bill Frisell, il batterista Peter Erskine, e una sezione di archi molto corposa, che vanno a completare le 7 melodie (più una ottava multipla) del lavoro.
E' un album che risale al 1988, secondo lavoro di Mays da "leader", un po' più in evidenza rispetto al primo lavoro (dal titolo omonimo, di due anni prima) proprio grazie alle numerose collaborazioni, probabilmente il meno difficile da reperire.
E' un lavoro interessante, pieno di sonorità ludiche, accattivanti e "televisive", lontano dal Jazz e dalla fusion e vicino a un sound e un mood da colonna sonora o da cartone animato. Una sonorità fortemente americana, urbana e contemporanea, ma senza acuti che mettano in evidenza la capacità compositiva di Mays. Definirei la maggior parte dei pezzi discorsivi, puliti ed elettronici: in tutti i pezzi c'è un po' di piano ma la Keyboards non manca mai. L'innesto di trombe e sax nel primo brano "Feet first" arricchiscono il suono ma non ne fanno un momento indimenticabile. Più sognante e acustico (ma scarno) "August", dove dovrebbe spiccare Frisell, ma non si arriva al momento topico perchè il pezzo non richiede arrembaggi. Davvero divertente, carina, semplice e strutturata al 100% da Mays il terzo brano "Chorinho" che andrebbe proprio bene per siglare un programma di cucina. Ci si avvicina al Jazz nel brano "Possible straight" dove il coro di trombe arricchisce un mood curioso e salooniano. Non male. Ma siglaiolo. Come del resto il pezzo successivo "Hangtime", dove torna Frisell alla chitarra, ma rimane figura marginale, e il pezzo non decolla mai. "Newborn" assai liturgica, ricorda un po' "The bat". Il pezzo di chiusura "Street dreams" è lunghissimo, pieno di innesti misteriosi e oscuri, diviso in 4 parti dal sapore spaziale ed elettronico. Un'intera orchestra (Chamber Orchestra) partecipa a questo brano, senza dimenticare le ossessioni chitarristiche di Frisell e le inquietanti percussioni sommerse di Glen Velez e compagnia bella. C'è un po' di tutto in questo pezzo: decine di influenze multietniche, percussioni africane e centramericane, vocine elettroniche e demoni singhiozzanti. Buoni i bassi, evocazioni da esplorazione di fitto ed umido sottobosco, se la mettessero a Gardaland in una casa dell'orrore sarebbe perfetta (non voglio essere offensivo). Insomma il filo logico sfugge (e ricorda moltissimo la triste esperienza di "Imaginary day").
In conclusione: piacevole, non indimenticabile, ben fatto per carità, ricco ed eclettico, ma senza acuti. Eppure questo curioso album si è portato a casa un bel Grammy nel 1988 per la categoria "best jazz-fusion album". Ad averle le mani di Lyle!
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