Il vento caldo di questi giorni mi fa apprezzare l’ormai bionda campagna. Passo i pomeriggi a passeggio su tratturi e capezzagne, strade di terra battuta e bianche. Perso nei meandri dei miei pensieri, riposo talora all’ombra di poche macchie di verde che s’incontrano, altre volte sotto sparuti e solitari gelsi trovati lungo il cammino. Quando la solitudine diventa fascinosa, non rincaso mai prima di sera e la campagna, come una silente fanciulla, diviene anima cui è difficile dire addio. In mezzo a queste colline piene di granella e profumo di coltura, attendo la notte, che cala portando con se solo l’umidità e le lucciole, magari un temporale incombente… nuovi profumi e nuovi rumori che si svelano lenti e fragorosi.

Passano così questi primi giorni d’estate, sospesi e persi tra gli accordi del Neil Young più rilassato e la pagina dell’Hermann Hesse più bucolico. La campagna ed il suo incantesimo, la sua staticità che porta l’animo al sicuro, al riparo dal fragore degli urbani giri di giostra, che delizia gli occhi e il cuore con il leggiadro e bel paesaggio frondoso, che, seguendo la linea schietta di una staccionata, ridà il gusto di una completa semplicità.
Ma le forche ed i covoni di fieno non sempre stilizzano una bellezza pura ed essenziale, non sempre ritraggono la Verità, cappellacci di paglia e lignee recinzioni sono spesso usate come balocchi dati in premio al luna park, svendute e svuotate del loro fascino e del loro senso. Citavo Hesse e Young, per il sol fatto che accompagnano questi giorni azzurri, ma mille altri cantori e poeti hanno tessuto la tela dell’incanto bucolico, dell’idillio arcadico e delle, in lui, infatuazioni e catarsi.

Questa è la campagna che piace a me, che m’allieta andare a scovare nelle pagine che corrono lievi e nelle note più agresti e riflessive. Non mi è mai, al contrario, piaciuta la campagna da baraccone, fin dagli inizi ho poco tollerato i pur meritevoli ma bifolchi gruppi Southern. L’immagine da butteri buzziconi spesso finisce nel più provinciale cliché dell’uomo del deserto e così cade travolgendo la poesia e l’intimità di questi luoghi segreti e riparati.
A questo mio atteggiamento, un po’ ostile, esistono delle eccezioni, tra le quali la più importante, e forse imprescindibile, pare quella dei Lynyrd Skynyrd. I Lynyrd mi ricordano i giochi di bimbo, ricordano i miei pensieri rotolare in vortici di paglia e di chicchi di grano, ma anche le corse in bicicletta su strade imbiancate dal sole e i cross-country per boschi e anche sotto la pioggia battente, ricorda gli sfalci d’erba estivi con il mio nonno più grezzo e gagliardo.

Violenti e istintivi, come la spontaneità degli più scapestrati maschiacci, la gioia e il trasporto dei Lynyrd ne decretò unicità e successo; i padri del Southern Rock pur beceri, fracassoni e inutilmente sudisti ad oltranza, hanno dei meriti che non possono essergli disconosciuti e una forza “live” che trasuda una rusticità e una ruralità ancora ineguagliate.
Tuttavia non ho mai concordato sulla testarda riproposizione, sulla loro ostinazione senza identità, ho trovato stupido imbracciare di nuovo la chitarra, che tante sere ebbe scaldato, solo per essere idiotamente fedeli a sé stessi. Non concordo con questo lavoro, “Endangered Species”, che pur essendo un buon “prodotto”, ben eseguito e che rende una certa idea di quella che fu la folgorante arrampicata del gruppo, non rende per nulla i predetti valori di istintività e trasporto, ma vede una perenne, quanto mutevole, formazione impegnata in un progetto demi-acustico nato per ripercorrere le tappe di una carriera gloriosa in una veste nuova, ma decisamente inadatta alla roboante immagine legata a questi figuri.

Il pathos d’un tempo è miraggio di lontano e i miei pomeriggi arcadici hanno bisogno d’altre essenze.

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