"La musica è tutto cio che abbiamo e che conosciamo. Non fosse stato per il rock'n'roll, saremmo andati a raccogliere cotone. Per circa sette anni abbiamo suonato nei club o alcuni dei ragazzi hanno lavorato consegnando fiori a domicilio. Io ho fatto il meccanico in un'autofficina. Alla fine abbiamo detto: fanculo, vogliamo suonare oppure crepare." (Ronnie Van Zant)

Quando si parla di southern rock, forse, i primi due nomi a balzare alla testa della maggior parte dei fruitori di quel rock aspro e pungente e figlio di chi ha fatto propria a suon di ascolti ripetuti, la policromia rhythm 'n' blues di Ry Cooder e la personale espressività blues di Paul Kossoff (Free), sono Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd. I primi ripropongono e creano nel contempo gli standard di un rock blues di matrice britannica, irrobustito da una doppia sezione ritmica percussiva che favorisce l'improvvisazione e sviscera energia in territori musicali apparentemente lontani, chiamando in causa anche psichedelia e jazz. I secondi invece, forti di un'immagine spontaneamente negletta, sbandierano una forma bruciante di boogie rock dove il piano è l'elemento cruciale per evitare assimilazione con la dirompenza delle hard rock bands del momento.

Al nome definitivo (preso da un intollerante professore di educazione fisica), i Lynyrd Skynyrd ci arrivano dopo un passato come One Percent che li aveva visti itineranti tra gli effluvi che si propagavano tra i rumorosi frequentatori della tarda serata del weekend di ritrovi storici, come il Comic Book Club (oggi un parcheggio) o il Forest Inn (demolito nel 1972) della loro hometown Jacksonville. Dopo un apparente interessamento della Capricorn Records (già label della The Allman Brothers Band), sarà la MCA a mettere sotto contratto gli Skynyrd, affidandoli alle sapienti mani di Al Kooper (eh sì erano proprio le sue quelle che suonavano l'Hammond nell'immortale "Like A Rolling Stone" di Dylan ...) per la produzione dell'omonimo e folgorante disco d'esordio.

Il secondo album vede la luce nell'aprile del 1974 e trova in attesa molto più pubblico di quanto non avvenuto con il primo lavoro del gruppo. In supporto dell'instancabile voglia di trasmettere quanto sia importante per i LS essere profondamente se stessi attraverso la musica, lo si coglie non appena partono le note del riff di "Sweet Home Alabama". Un brano che su input del fantasioso Gary Rossington, prenderà forma solo con il geniale sviluppo degli accordi di base da parte di Ed King (passato da poco dal basso alla chitarra ...), perfezionandosi ulteriormente con il patriottico testo di Ronnie Van Zant che gli darà le giuste carte per farne l'inno del gruppo e non solo. Dello stesso passo l'introduzione di "Working for MCA", un brano, in cui l'aggressività vocale di Ronnie Van Zant si lascia colpire e trascinare nel contempo dalla spinosità dell'inaspettata combinazione delle tre chitarre , ancor di più valorizzata dal poderoso lavoro ritmico di Wilkeson (basso) e Burns (batteria). Il boogie di "Swamp Music" riesce nell'intento di mantenere alta la pressione sanguigna di chi ascolta, mentre con "The Needle and the Spoon" in cui fuoriesce come innata la capacità di fondere un rock paludoso a momenti di puro divertimento, affrontando temi delicati quali i pericoli della droga o l'angoscia che prevale quando si trascorre molto tempo on the road (I've been feelin' so sick and tired, Got to get better, Lord before I die ...Thirty days, Lord and thirty nights, I'm comin' home on an airplane flight: Signore, sono stato stanco e malato, devo cambiare ... Trenta giorni e trenta notti, sto facendo ritorno a casa in aereo). A "Don't ask Me No Questions" (frutto di un lavoro a quattro mani tra Rossington e Van Zant) spetta il ruolo di traccia più spassosa del lotto ma, sempre nel pieno rispetto dei canoni che disciplinano lo spirito di chi suona rock 'n' roll, mentre avvincente risulta "I Need You" ed alla delicatezza di "The Ballad of Curtis Lowe", spetta ricordare quanto le corde di un dobro candidamente pizzicato, possano riflettere al meglio anche la melodica tradizione sudista. La chiusura dell'album è lasciata ad un'incandescente versione di "Call Me the Breeze" (presa in prestito da "Naturally" - 1972 - l'album di esordio di J.J. Cale) dove la fumante Gibson Firebird di Collins scalda il terreno al micidiale killer solo di piano, concepito ed elaborato dall'abilissimo ed amato tastierista Billy Powell (R.I.P.) che casualmente passò dal ruolo di roadie a quello di membro permanente (...e fondamentale) del gruppo.

Un disco in cui confluiscono brani ispirati che prendono ancor più forma attraverso un suono poderoso, ma capace di esprimere il potenziale di una band che dal vivo da sicuramente il meglio di sé, capitalizzando appieno e proprio in studio, il sudore cosparso fino a poco prima sui palchi degli Stati del Sud. Da ascoltare e senza remore da avere!

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