"In ogni mio film c'è sempre la fede anche se non è visibile in superficie, anche se non se ne parla direttamente. Quello che conta per me è che il film provochi emozioni profonde. I miei film solitamente non passano inosservati: o vengono amati o vengono odiati fortemente."

Così si è espresso Manoj Night Shyamalan in conferenza stampa a proposito di questo suo ultimo lungometraggio, "The Happening", tradotto in italiano col convincente titolo "E venne il giorno", in cima al box office italiano ad una settimana dall'uscita nelle sale, pronto a scongiurare le voci di crisi creativa seguite al claudicante e particolare "Lady in the water".
Chi si aspetta ancora, a quasi dieci anni di distanza, un nuovo "Il sesto senso", rimarrà, diciamolo subito, piuttosto deluso. Da un punto di vista di regia, così come di sceneggiatura, la pellicola non riesce ad elevarsi al livello dell'opera prima dell'autore, né a quello di "Signs", altro grande film che in partenza aveva molte somiglianze con la trama di quest'ultimo film. Anche le tanto declamate scene di violenza di cui il trailer vietato ai minori in rotazione su youtube ci ha dato un assaggio risultano in realtà piuttosto blande, se paragonate alla violenza adrenalinica - più che visiva - del primo film del regista di origini indiane. Ciò che interessa a Shyamalan, in quest'opera come nelle altre, è in realtà analizzare la psicologia dell'uomo che si trova ad affrontare l'ignoto, l'informe, l'Estraneo, la cui caratteristica principale, l'alterità appunto, può essere - oppure no - accompagnata anche da una "forma" per così dire terrorizzante.
Se ne "Il sesto senso" l'estraneo era il fantasma, un fantasma corporeo, umano, disperato, e in "Signs" l'alieno, l'Altro per antonomasia, qui il principale nemico sembra essere la natura - le piante, in tutte le loro forme, che al termine del film non potranno non apparirci grottesche, mostruose, vive (il che è già un gran risultato). Se nei piani del regista c'era l'idea di non farcelo capire subito, possiamo tranquillamente dire che non c'è riuscito, perché non c'è una vera rivelazione, non c'è un vero colpo di scena, e fin dall'inizio ci si rende facilmente conto che ciò che causa i suicidi di massa - perché è di questo che parla il film, per chi non lo sapesse - è una tossina diffusa nell'aria da alberi e cespugli, una sorta di arma di difesa contro l'uomo "cattivo" che avvelena il pianeta e non ha rispetto per la natura (e questo lato ecologista è forse la parte più debole e retorica dell?intero film, anche se per fortuna non viene troppo messa in risalto).
L'ondata di paura generata dalla notizia diffusa unicamente dai media (l'esercito americano appare qui debole, impreparato ad affrontare e gestire la crisi) spinge la gente a fuggire dalle città della costa orientale degli Stati Uniti, tutte sotto attacco. Come mi è stato giustamente fatto notare, si può tranquillamente dire che le persone contaminate smettono di vivere, di essere umane nel momento stesso in cui vengono colpite, dal momento che si tolgono spontaneamente la vita. A seguito della notizia secondo cui anche Philadelphia possa essere a rischio, Elliot Moore (Mark Wahlberg), un professore di scienze, decide di partire verso le regioni più interne insieme alla moglie Alma (Zooey Deschanel), con la quale è in crisi, al migliore amico Julian (John Leguizamo) e alla sua bambina, Jess. Ben presto scoprono che l'area di infezione, fino a quel momento limitata alle città sulla costa, si sta espandendo rapidamente giungendo anche nei centri più piccoli come paesi e case di periferia. Diviene chiaro che chi viene colpito dalla tossina non riesce più a tornare in sé e finisce con l'uccidersi, senza che né l'esercito né i media siano in grado di fornire una risposta a tutto questo. Elliot si trova così costretto a prendersi cura dei suoi cari in un clima di sempre maggiore isolamento - e in questo il climax della seconda parte del film è davvero ben studiato - rendendosi sempre più conto che sfuggire dal pericolo, dalla morte e dalla paura vuol dire anche riafferrare, riappropriarsi di ciò che rende la vita degna di essere vissuta, ovvero l'amore (che come giustamente Shyamalan ha affermato, è un tema portante dei suoi film, fondamentale in tutte le sceneggiature da lui scritte).
Riemergono così visioni e atteggiamenti paranoidi negli individui sotto attacco, chiaro parallelo col recente "The village", riemerge la paura del diverso, che assume toni spesso irrazionali e addirittura omicidi (mi riferisco alla scena della casa sprangata). Riemerge soprattutto quel rapporto con lo spazio che ha sempre segnato tutti i film di Shyamalan (con l'esclusione di "Unbreakable"): una sempre maggiore circoscrizione dello spazio nella prima parte del film, che trova come sempre l'apice nel momento in cui Elliot, Alma e Jess si barricano nella casa della vecchia contadina, e un tentativo di apertura, di fuoriuscita nel mondo nella parte finale, culminante nella gran bella scena (che non anticipo) in cui Elliot decide di raggiungere Alma e Jess attraversando il giardino - una sorta di rinascita, di affermazione della vita. La simbologia della casa violata da un organismo estraneo, chiaramente "uterina", come in "Signs" e ne "Il sesto senso", e il tentativo di riappropriarsi, coraggiosamente, del mondo esterno e di ciò che in esso vi è di prezioso e di importante, rimane probabilmente l'elemento fondamentale, il più profondo di M. Night Shyamalan, quello che ci permette di perdonarlo laddove le inquadrature e la regia sono meno curate del solito, laddove la tensione non sempre sale e si scarica come dovrebbe, laddove, forse, alcuni piccoli particolari potevano giocare un ruolo diverso, più pregno di significati, così come la morte della moglie assume il tono di resa dei conti col destino in "Signs".
Ben sostenuto dal bravissimo e sottovalutato Mark Wahlberg e dalla bella e carismatica Zooey Deschanel (attrice che personalmente adoro, da esteta), Shyamalan ricostruisce un percorso di rinascita e di superamento dalla paura che ha ancora una volta come controparte l'amore, ossia il coraggio che impedisce agli esseri umani di rimanere barricati in un universo ristretto, compromettente e falsamente rassicurante portandoli a rischiare, perché proprio il correre un rischio equivale, forse, ad affermare il lato più profondo della natura umana.

Carico i commenti...  con calma