Il 1994 rappresenta per chi aveva visto nascere e crescere il Seattle sound un momento di estrema difficoltà, di estrema incertezza per quelli che saranno gli esiti di gruppi ai quali ormai, chi più chi meno, era profondamente legato per quel misto di esperienze di vita per molti aspetti accostabili alle biografie dei maggiori esponenti della suddetta scena, per l'approccio alla musica (così diverso dal decennio precendente), per la ricchezza di impressioni, sensazioni e umori che sprigionavano quei pochi e rumorosissimi accordi: la morte di Cobain, la crisi che sembrava aver colpito i Pearl Jam nell'immediato post Vitalogy, gli Alice in Chains alle prese con i drammatici problemi di salute di Layne Staley. Gli stessi Soundgarden, ebbri del successo finalmente raggiunto con Superunknown, erano abbastanza prossimi al collasso.

In questa situazione si inserisce quello che è, a mio parere ma come per molti altri, il gruppo che forse più di altri ha rappresentato il Grunge e la sua anima con un unico, sorprendente disco.

I Mad Season sono composti da alcuni esponenti dei maggiori gruppi dell'intero movimento: Layne Staley, Mike McCready, Barrett Martin, ai quali si aggiunge il bassista John Baker Sounders, estraneo alla scena ma apprezzato session-man di estrazione puramente blues: le varie vicissitudini personali dei 4 (3/4 in cura presso cliniche specializzate nella disintossicazione da alcool e/o stupefacenti) e la conoscenza sviluppatasi in anni di condivisione di palchi ed esperienze portano ben presto ad improvvisare appassionanti e lunghissime jam sessions, sul finire del 1994, tanto da apparire già nel cartellone dello storico Crocodile Cafè di Seattle il 16 ottobre, con il nome di Gacy Bunch, immediatamente cambiato in quello che conosciamo (espressione inglese che indica il periodo in cui i funghi allucinogeni sono in piena crescita). Approfittando delle pause dei gruppi madre, i 4 iniziano a far sul serio, e il 14 marzo 1995 esce Above, su etichetta Sony/Columbia. Partecipazione straordinaria in due pezzi ("I'm above" e "November hotel") per il compagno d'arme di Martin, quel Mark Lanegan ancora capellone che nei successivi anni avrebbe intrapreso con decisione e talento la via solista, comparendo nelle produzioni più importanti tra fine secolo e inizio del millennio.

Ascoltarlo per la prima volta (dal mio vecchio stereo a cassetta, con un nastro che definire pessimo è poco), mi lasciò a bocca aperta: "cos'è quest'intro di basso!?", "dove sono finiti i decibel?" e "che fine ha fatto quella sporcizia sonora che tanto adoro?". In quel momento non potevo certo saperlo, ma stavo attraversando, a quasi 18 anni, la porta che mi avrebbe portato ad una crescita in termini di ascolto, alla ricerca della musica e non solo del frastuono. Mettendo da parte la storia della mia vita, passiamo a parlare del disco, con una necessaria e doverosa premessa: come ho già detto altrove, solo chi scrive un disco ne può parlare in termini di oggettività. Chi prova a recensirlo, può basarsi solo sulle sensazioni, le emozioni, la meraviglia che 4 accordi procurano.

Mike McCready è un grande chitarrista, e non temo pareri contrari: nei Pearl Jam è naturalmente frenato dal genio incontrastato di Stone Gossard (in special modo nel pre-Yield), e il suo apporto si limita allo spleen più sfrenato. Questo disco è invece il suo capolavoro chitarristico: sfuriate elettriche e dolcezza a 6 corde, psichedelia e rock, Jimmy Page e Jimi Hendrix, Fender e Gibson, convivono in un equilibrio che ha del miracoloso: "River of deceit" è il suo contributo al rock di ogni tempo. Il basso di John Baker Sounders fa il suo lavoro: è il più esperto dei 3, ha una grande esperienza e si sente: tiene la baracca coi piedi ben piantati in terra, non permette né alla batteria, né alle chitarre di allontanarsi troppo dal seminato li controlla e li richiama all'ordine. La batteria di Barrett Martin è versatile quanto mai: la sua esperienza con gli Screaming Trees lo aveva del resto abituato ad alternare registri più bluesy ad altri decisamente più veloci. Alla voce, il meno considerato a livello mediatico di tutta la scena grunge: Layne Staley conferma ancora una volta lo straordinario talento messogli a disposizione dalla natura, e cioè una voce che è in grado di emozionare, trasmettere presagi, vibrare, e sognare: le sue armonizzazioni hanno fatto storia, e sono croce e delizia per chiunque tenti di interpretare un suo pezzo. In più, l'artwork dell'intero progetto è affidato ad alcuni suoi disegni: una puntualizzazione, dovuta all'artista Staley.

Il disco alterna partiture rock ad altre blues, raggiungendo livelli artistici veramente importanti: al primo registro si iscrivono la schizofrenica "X-ray mind", la dolce e allo stesso tempo amara "River of deceit", la potente "I'm above", mentre "I don't know anything" è l'unica concessione al grunge; accostabili ai canoni blues sono la maestosa "Wake up", l'ipnotica "Artificial red", la malata "Lifeless dead", mentre meno classificabili risultano essere "Long gone day", "November hotel" e "All alone". Tuttavia, il disco risulta compatto e senza alcuna dispersione, con una scaletta costruita in maniera esemplare. La musica sembra andare di pari passo con le liriche, come sempre impregnate di elementi biografici di Staley: in particolar modo, ?River of deceit? dipinge un quadro a tinte fosche, perfettamente colorato (in bianco e nero, paradosso) dalle note di McCready. Il disco, che resterà l'unico prodotto dal gruppo (che si può ammirare dal vivo in uno spettacolare concerto tenuto al Moore Theater di Seattle), chiude idealmente l'epopea grunge, esattamente a 4 anni di distanza da "Temple of the dog": un disco non facile, non accessibile a tutti; un disco che per quelli che c'erano rappresenta un momento irripetibile, e che per quelli che ci sono oggi, sarebbe da riscoprire. Purtroppo, o per fortuna a secondo dei punti di vista, ben presto i gruppi di appartenenza si rimetteranno in carreggiata: purtroppo, e qui non c'è alternativa, quei problemi che avevano unito questi musicisti non spariranno mai del tutto. McCready solo nel post-Binaural (e siamo già nel nuovo millennio) risolverà i suoi problemi, sembra definitivamente; John Baker Sounders morirà per overdose nel '99; Layne Staley, dopo un auto esilio durato anni (interrotto solo da pochi attimi di luce) verrà trovato morto il 5 aprile del 2002.

"Ci incontriamo tutti di tanto in tanto
Non è così strano
Quanto siamo lontani adesso
Sono l'unico che ricorda quella estate
Oh, io ricordo
Ogni giorno in ogni momento quel luogo era sicuro
La musica che abbiamo fatto
Il vento ha trasportato via tutto quanto"

("Long gone day")

 

Ps: ho ritenuto di scrivere questa recensione perché, pur essendo apprezzabili, quelle già presenti mi sembravano mancare di qualcosa e data l'importanza che ha per me questo disco, ci tenevo a dire la mia.

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