I Made In Mexico spaccano il culo.
Un math-noise-rock tecnico, possente, ma al tempo stesso schizzato e disarticolato è quello che la band di Rhode Island vomita, non lesinando influenze pesanti quali Suicide, Chrome e Sonic Youth, allontanandosi più volte dal math vero e proprio.
Il gruppo si fa forte di una vocalist con le palle, Rebecca Mitchell, che col suo lamento disincantato, viscerale e nichilista fornisce una vena hardcore ai tappeti strumentali, peraltro tutt'altro che sani, che le piazzano Dare Matheson, Jeff Schneider e Jon Loper, rispettivamente batterista (che legna il giusto), chitarrista (grezzo, lo-fi, iperdissonante, ex Arab On Radar - con cui oltre l'etichetta il gruppo condivide diversi tratti stilistici -) e bassista (ampio sarà lo spazio per lanciarsi in ossessivi riff dispari a formare un tutt'uno con le sempre nervosissime parti ritmiche e il declamare malato di Rebecca).
Non manca certo la sperimentazione (non potrebbe essere altrimenti vista l'etichetta, la leggendaria Skin Graft) sebbene trattasi più che altro di citazioni, fantasmi che aleggiano e cose già sentite in passato (Pain Teens e Don Caballero su tutti), rielaborate però in una chiave personale quanto basta per non cadere sul revisionismo arricchendo il tutto con squarci di elettronica lo-fi e putridi tribalismi che richiamano ora più che mai alla lezione del no-wave.
Copertina che rispecchia inoltre molto bene quello che si andrà a sentire al suo interno, tutto molto freak, tutto molto psichedelico, tutto molto casareccio.
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