“The Deep End” ovvero quella particolare sensazione di perdita del controllo, quel senso simile al precipitare, ad affondare squarciandosi (nel profondo).
I norvegesi Madrugada sono giunti al loro quarto lavoro, registrato a Los Angeles insieme al produttore Gorge Drakoulias (già con Screaming Trees, Black Crowes e Primal Scream) e con Dave Bianco (U2, Mick Jagger) al mixer.

Avendo a disposizione una strumentazione notevole (un gran numero di chitarre e bassi oltre che vecchi amplificatori degli anni Cinquanta) i nostri si sono sbizzarriti alla ricerca di nuove canzoni che dessero un seguito apprezzabile al buono ma controverso “Grit” datato 2002. E così è stato.
Ne é venuto fuori questo “The Deep End”, album compatto dal fascino decadente e angoscioso. Prevalgono brani elettrici ed energici dalle atmosfere cupee ben tracciate da un basso profondo ”che si sente” e da una batteria imprigionata e nervosa mentre le chitarre trascinano e stemperano e perpetuano le inquietudini e gli struggimenti dell’evocativo e baritonale canto di Sivert Høyem.

Si parte con l’esuberante “The Kids Are On A High Street”, primo singolo estratto, che poggia su un bel giro di chitarra torrida e appassionata (che mostra reminescenze ai R.E.M. e a Bruce Springsteen) dove a farla da padrone è subito il canto di Høyem profondo e ispirato.
Con “On Your Side” i Madrugada calpestano subito la tenue luce del sole: si sterza bruscamente verso tonalità sempre più fosche ed oscure, quasi industriali dove a brillare è una sezione ritmica davvero in gran spolvero con il basso di Frode Jacobsen in evidenza.
Una slide alla The Edge ad inquietare e ad affliggere e un Høyem crooner che ricorda Scott Walker sorreggono “Hold On To You”, puro late night rock: musica per un purgatorio di anime tormentate e perfetta per il cinema di David Lynch. Echi dei Tindersticks in un fuoco che cova sotto la cenere.
“Stories From The Streets” ha un incedere che deve molto al flamenco, un andamento spagnoleggiante e gipsy pervade tutto il brano che sostenuto da una chitarra desertica e ossessiva finisce con il deflagrarsi di un finale orgiastico.
Una delle pietre portanti di “The Deep End” è sicuramente “Running Out Of Time”, un dark blues di oltre sei minuti sospinto da una chitarra martellante, con Høyem che rammenta l’ultimo Mark Lanegan cupo e filtrato di Methamphetamine Blues.
Altra gemma è “The Lost Gospel”, una struggente ballata amorosa dissimulata in vesti country-gospel mentre la successiva “Elektro Vacuum” è un altro brano energico che sfoga un rovente flusso di coscienza e sfoggia un bel ritornello che s’imprime facilmente nella memoria.
Il lavoro di Drakoulias risalta ottimamente in “Subterranean Sublight” ove lo sporco “strimpellio” pizzicato del chitarrista Robert Burås scivola in più vistosi regni, buoni per anime spavalde ed eleganti, abbracciando un groove che sembra venire direttamente dalla Manchester degli Stone Roses.
“Hard To Come Back” contiene riferimenti all’abuso di alcool e droghe ma sono le chitarre ossessive e un drumming indemoniato a caratterizzare il brano nel suo incedere irruente.
Echi del Nick Cave più impetuoso e veemente insieme alle sonorità malate dei Joy Division e dei Bad Seeds si ritrovano invece in “Ramona”. Il brano ha un procedere delirante, convulso e violento quasi come anime dannate che si tormentano nell’aldilà.
Anime che non si placano nemmeno nel successivo “Slow Builder” ma che indossano una pelle diversa: anime sfrenate partecipi di un baccanale notturno per una ballata psichedelica, un blues-rock che riesce a fondere lo spirito di Robert Johnson e Janis Joplin.
“Sail Away” è una lunga ballata sognante con una cavalcata di moog sullo sfondo che vorrebbe poter riuscire a riportare raggi di luce ma si limita a rimandare il proposito ("I just want to sail away/From it all/Freedom is impossibile/This I know") e resta lì sospesa.
In chiusura sono poste le consuete bonus tracks. Di queste “Life In The City” è un'onesta ed energica rock song che nulla aggiunge e nulla toglie all’album; spicca invece l’ultima canzone inserita: “I’m In Love” sorta di jam claustrofobica in cui il canto filtratissimo di Høyem si schianta su pareti industrial e incontrollate sonorità doorsiane.

Album solidissimo e pieno di spunti differenti questo è “The Deep End”. Certamente manca la meraviglia inattesa e il mistero di quell’Industrial Silence, album d’esordio di qualche anno fa ma questo nuovo non delude; il risultato è più che degno e ci restituisce una band in gran forma per melodia ed impatto interpretativo. Una band che può permettersi di sposare divagazioni e sconfinamenti senza ammorbidire di un millimetro il proprio suono ruvido ed inquieto.

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