Magellan è stato il progetto progressive metal di due fratelli californiani che di cognome fanno Gardner. Dei due quello più in vista è Trent, compositore di tutte le musiche e le liriche nonché cantante e tastierista, con un ulteriore e sfizioso strumento nel suo bagaglio espressivo: il trombone. Il fratello Wayne si limitava al ruolo di chitarrista, suonando sporadicamente anche il basso ma ora per lui è finita... ahimè si è tolto la vita poco tempo fa.

Musicisti dotati e apprezzati dagli addetti ai lavori, del tutto privi di un qualche aggressivo oppure ombroso oppure sciupafemmine look metallaro, apparendo invece ordinariamente grassottelli e pelati un po' nel genere di certi nostri pastasciuttari reggaemuffin'del Salentino, i due Gardner non sono mai riusciti a quagliare organicamente col successo e le vendite dei dischi; anche perché il loro progressive è bello logorroico e mega strutturato senza però essere veramente virtuoso, sì da attrarre le tante anime semplici che stravedono per i numeri da circo fatti correndo in lungo e in largo per le tastiere degli strumenti.

Il pezzo forte di questo lavoro d'esordio dei Magellan (siamo nel 1991) dovrebbe essere l'iniziale "Magna Charta", oltre quattordici intensi minuti molto in stile Kansas, volti a descrivere l'epopea di questo celebre documento da tutti incrociato almeno per un attimo alle scuole superiori, e per la cronaca il primo con una qualche parvenza di costituzionalità dai tempi della civiltà Ateniese: un giro di vite ai soprusi feudali imposto, se ben ricordo, dai nobili inglesi al loro re Giovanni Senza Terra, verso la fine del secolo dodicesimo.

In realtà c'è di meglio nel corso degli otto brani che formano quest'album, che finisce per rendersi più piacevole ed interessante negli episodi più concisi e per questo maggiormente a fuoco. La traccia a me più gradita, per dire, è proprio in chiusura ossia il minuto e venticinque secondi di "Turning Point", un'obliqua e deliziosa melodia descritta dalla bella voce di Gardner, appoggiata sopra un suggestivo tappeto di sintetizzatore.

Un'altra chicca ben riuscita, questa della durata di ben due minuti e qualcosa, ha per titolo "Just One Bridge" ed in effetti fa da ponte fra due altri brani più corposi e sfaccettati. Stavolta il canto di Trent si insinua sopra un arpeggio di chitarra del fratello, dal suono molto riuscito ed armonico.

L'altra abbondante suite "Union Jack" (l'album come si intuisce è a concetto, e tratta delle vicende medievali della nazione britannica) è un nuovo tour de force tra fanfare di sintetizzatori, cambi di tempo, laboriose estensioni di testo, precisissimi break ritmici non foss'altro perché tutto si regge sui colpi di una batteria elettronica... purtroppo una scelta infelice a prescindere, data l'innaturalezza del suo apporto specialmente nelle rullate più lunghe e veloci, del tutto meccaniche e prive di swing e nerbo. Le cose andranno meglio negli album seguenti, con batteristi in carne ed ossa in azione (qui i due fratelli sono coadiuvati solo dal bassista Hal Imbrie), senza però mai intercettare grossa ispirazione.

Album, e gruppo, esclusivamente per appassionati del genere progressivo pesante, ma con qualche apertura melodica in grado di attirare ascoltatori anche meno specifici.
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