Mai risvegliarsi a metà di un sogno. Dicono che più l’anima è ambiziosa e più i sogni la allontanano dal possibile.

L’ambizione di vivere...o morire dentro quella cornice esclusiva, dentro quel quadro dipinto della nostra immaginazione, quel dipinto rinascimentale che ci somiglia...quando sogniamo.

Un’impresa riprenderlo quel Dream in Progress nei tempi nostri sfuggenti, sempre di corsa, azzannati dal tempo e affannati, mentre fuori divampa il conflitto, l’ultimo in ordine di apparizione, scivola giù dai titoli di coda di quello precedente con l’indifferenza borghese del mercante che scende dal calesse, come quella soffice neve che imbianca una pallida città stordita dall’ultima epidemia e dall’ultimo spot di Amazon. Una città perennemente in veglia e stanca, dove quel dream in progress ci ha lasciato in panne proprio sul più bello. L’atterraggio poteva anche essere morbido, ma la leggerezza è ormai solo un affar da piuma di gabbiano.

Essere leggeri sì ma anche radicali.

“Come la poesia moderna sta ai poemi di Baudelaire, così la musica moderna ha le sue radici in Debussy” diceva uno dei più grandi direttori d’orchestra del ‘900.

Si non c’entra un cazzo ma ci stava decisamente bene.

E quando da quelle altitudini oniriche la nostra dimora entra in metamorfosi diventando umida prigione dove la Speranza, come un pipistrello, va sbattendo contro i muri la sua timida ala e picchiando la testa sui soffitti marci; non resta che cercare di ritrovare oblio in quel sogno lucido e musicale, in quei versi canticchiati e stonati, di una canzone che probabilmente non esiste, anzi è forse solo esistita in un frammento rubato di un sogno, ma che in quel momento è diventato, in quella metà oscura di quella reverie dimezzata, quella salvezza avvolgente.

Quella ciambella di salvataggio in quel mare in tormenta , sotto quel cielo di nebbia e spazi immensi…

E poi dai sogni dimezzati e incompiuti, tra quelle frange di nubi e di basette sudaticce e sixsties, nascevano a volte anche mezze grandi opere in quegli anni. Nell’intersezione dei generi e nell’espansione della mente e del prepuzio.

L’opera omnia fischiettata, una zuppa di generi, con riverbero dei ‘70, una zolla di dream pop e freccette shoegaze dormienti su ali di Icaro, quel fissare le scarpe sempre più lucide, batterie di Emo rinchiusi in gallerie metropolitane sotto ondate di noise pop, attendere lo scorrere lento degli anni, prima che la tipa giusta si decida a dartela in macchina sotto l’ipnosi dei My Bloody Valentine.

L’opera omnia fischiettata cercava un produttore, un distributore, anche una pompa di benzina, insomma un propulsore, un minimo di quella visibilità mediatica che serve per chi tiene famiglia. Ma nessuno si mostrò così lungimirante, per produrre quel turbamento elettrico nato da un risveglio prematuro. Allora i Magic Castles cosa pensarono, produciamo un album di cover di questo album…

che non è mai esistito.

Eccolo.

The One

Questa è la storia musicata di due fratelli,si chiamano Jean-Benoît Dunkel e Nicolas Godin, sono stati per mesi a zonzo per Crateri Lunari in vacanza e sono tornati poi a casa a Versailles con un treno, solo che si sono addormentati durante il Voyage ( de Penelope) e si sono risvegliati a Cnosso. All’interno di una galleria labirinto e senza uscita. Scesi dal treno hanno iniziato a vagare per giorni all’interno della galleria, cercando Lei, la Femme Fatale velvettiana, la Femme D’Argent. Che nel loro caso è l’Eterna Assente, singolare, anzi unico esemplare di Femmina nel mondo, si chiama Charlotte, fa Gainsbourg e se ne sta con il suo amante sulle spiagge di Cap Ferrat, mentre l’orologio fa cucù.

Moon Dust

Una cover di un brano che non esiste, è come una foto della fontana di Trevi nel deserto. Sotto quella polvere di luna, sotto quel chiarore, la scultura di quel suono desertico e sanguigno, accecati non dal sole della California ma da quello della Magna Grecia, un western morriconiano ma anche mediterraneo, tra le ombre aspre degli altipiani battuti da quel sole Greco. Una resa dei conti senza vittime e vincitori, che si perde nello spazio e nell’eternità; cavalcate di frontiera accompagnate da chitarre desertiche e frammenti di dolente e piangente steel guitar, per cowboy stanchi ed erosi dal Tempo della Decomposizione.

Hollow Moon

Vuoi una Farfisa ronzante od una chitarra fuzzy ? ma poi questi Angeli cosa hanno così tanto da gridare. Prima di sprofondare profondamente nelle fiamme.

Lost in Space

Si vive la realtà, ma in realtà è solo uno spicchio malato di una trance psicotica. Ci sono due teppisti che arrivano da un altro pianeta, si chiamano Martin e Alan, suonano con una Farfisa acquistata sulla luna ed una drum machine degli anni ‘50. L’essenzialità minimalista, quel suono in sottrazione ed anti capitalista, less is more… Fare sesso con una drum machine, è un’esperienza profondamente conturbante, si deve solo prestare attenzione a non tagliarsi troppo. Vogliamo andare nello Spazio, abbiamo la Smemoranda spaziale piena, si ma dobbiamo prepararci bene, dobbiamo resettare l’anima e sintetizzare il Tutto. Ed ecco quel Sound perfetto, minaccioso, primitivo, che si rovescia su chi ascolta.

See Her Eyes in The Sky

Ecco questo brano, me lo ricordo, è quello che si è attaccato al frigorifero. Sì perche ha un magnete seppellito dentro…

Quella psichedelia aromatizzata che consegna i Quicksilver Messenger Service nelle fobie dei Television , quel devastante frontale con gli Hawkind, avvolti da policromie acid-rock e brume new wave.

J' adore ( letrackbytrack)

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