L’album è dal vivo, più specificatamente tratto da un concerto estivo newyorkese in pieno Central Park, ma ha la particolarità di contenere materiale completamente inedito all’epoca (1973): la spiegazione è che il gruppo stava ai tempi litigando di brutto, tanto da impedire la pubblicazione di questi nuovi brani recentemente composti e regolarmente registrati in studio insieme ad altro materiale, costringendo in tal modo la casa discografica ad arrangiarsi facendone uscire una versione in concerto, intanto che queste musiche erano nel frattempo entrate stabilmente nelle scalette delle esibizioni della band.

La disputa era fra il capobanda, ossia il chitarrista John “Mahavishnu” McLaughlin, e tre dei quattro musicisti che lo accompagnavano vale a dire il pianista/sintetista Jan Hammer, il violinista Jerry Goodman ed il bassista Rick Laird e la questione verteva sull’insofferenza da parte del terzetto di avere un ruolo subalterno a livello compositivo. Le session in studio di quell’anno avevano visto lievitare il contributo creativo di tutti e tre e si voleva, nell’album prossimo venturo, la presenza di tutti e quattro i compositori nei crediti.

McLaughlin non era di questo avviso, considerava l’Orchestra un suo progetto ed i musicisti al suo fianco sostanziali collaboratori ed esecutori della sua visione ed ispirazione. Per inciso il suo formidabile batterista di colore, il panamense Billy Cobham, si era tenuto fuori da tale braccio di ferro preferendo convogliare le sue voglie compositive in un disco solista e facendo con questo la scelta giusta: il suo lavoro di esordio “Spectrum”, contemporaneo a questo disco, è uno dei totem della musica fusion, decisamente più famoso, apprezzato e influente di quest’album in definitiva discretamente dimenticato e negletto.

I brani, tutti strumentali dato che siamo nel settore della musica fusion ed il quintetto è privo di cantante, sono solamente tre. Il meglio viene dalla prima facciata, con l’intensa e spettacolare suite tripartita “Trilogy” di McLauglin ed il cadenzato, sincopato e vagamente crimsoniano contributo di Jan Hammer “Sister Andrea”. Quest’ultimo brano è fra l’altro “potato” di circa un minuto, forse per farcelo stare nella prima facciata dell’originario ellepì senza pregiudicare la qualità d’incisione, ma resta comunque una gran cosa costituendo a mio sentire, insieme alla trilogia che lo precede, la vetta assoluta della Mahavishnu Orchestra. Peccato però che il brano finale “Dreams”, dispiegato al tempo in tutta la seconda facciata del vinile, non offra la stessa ricchezza motivica ed armonica, e soprattutto lo stessa infuocata intensità di ciò che lo precede, risolvendosi in qualcosa di parzialmente irrisolto e soprattutto troppo annacquato (oltre ventuno minuti).

Ma i primi due contributi sono spettacolari… l’Orchestra era realmente una macchina da guerra, molto potente e infuocata e qui se ne avverte tutta la forza d’urto sul palco. Di violinisti come Goodman non ce ne sono uguali (mi correggo: forse, anzi certamente uno alla sua altezza è Simon House, ex-High Tide/Bowie/Hawkwind). Qui dal vivo talvolta capita di sentirgli prendere una mezza stecca ogni tanto ma in quanto ad animosità, visceralità, convinzione e fascino il suo strumento svetta alla grande e comunica grande emozione. Che dire poi del sublime, eterno paradiddle di mastro Cobham, una leggenda vivente a proposito del come stare costantemente sul rullante a spargere accenti in continuo, su tempi impossibili rigorosamente dispari, tenendo la cassa quasi come colore anziché il canonico contrario, in definitiva un cavallo di razza del ritmo, dal clamoroso talento.

Il leader McLaughlin è qui al momento migliore di carriera: un grande chitarrista con un suo fraseggio arzigogolato ma intenso e sovente sorprendente, ma ancor più con una peculiare visione del jazz in grado di espanderlo su territori scenografici e pregnanti, persino accattivanti. Personalmente ho però un paio di riserve sulla sua effettiva capacità di estrarre il meglio di sé con l’amplificatore settato alla maniera hard rock (bello distorto) come costantemente avveniva nella Mahavishnu: essendo di scuola jazz, pur nella sua incredibile destrezza ed agilità John mostra evidenti lacune nel tenere a bada i feedback generati dalla sua chitarra così distorta e rumorosa: ne deriva un fraseggio “sporco”, che ne offusca parzialmente la qualità musicale.

Altro appunto che mi è sempre saltato all’occhio (anzi, all’orecchio) ascoltandolo è il modesto stile del vibrato, componente di fraseggio basilare nel rock, diciamo pure il più importante. John “vibra” poco e maluccio, pure in questo caso a ragione del fatto che la chitarra l’ha imparata a suonare “pulita”, senza molto sustain, senza una profonda abitudine all’arte di “lavorare” una corda dopo che la si è pennata, lasciandola risuonare per secondi interi e continuando a muoverla per generare espressività da essa. Su questo aspetto è d’altronde in buona compagnia… vi sono altri grandissimi chitarristi (Steve Howe ne è un esempio) lacunosi negli stessi termini del nostro.

Per la cronaca, le tre canzoni esordienti su quest’album live hanno visto la luce, nella loro primigenia versione in studio, nel 1999 in un album postumo intitolato “The Lost Trident Sessions” (insieme ad altre tre totalmente inedite), grazie a un colpo di fortuna che consentì ad un addetto della casa discografica di ritrovare in archivio il master delle registrazioni, disgraziatamente accantonato per venticinque lunghi anni dopo la disgregazione del quintetto a fine 1973. Ebbene: suonano meglio le versioni dal vivo, più sanguigne, più potenti, più mosse, più vere, più… rock, di quest’opera qui!

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