Lo Space Rock, affermatosi nei primi anni '80, si caratterizzò per il livello eccelso del "cielo" sotto il quale sembrarono collocarsi i suoi Autori, e che in un ambiziosissimo progetto di transavanguardia ante-litteram che citava come referenti l'elettronica berlinese di Can e Tangerine Dream, le algide e coltissime sperimentazioni classiche-elettroniche di Karlheinz Stockhausen (pagina informativa ) e più "da vicino" la geniale formula pop-rock ideata da The Jesus And Mary Chain (page two), tracciò il disegno di un'ardita geometria sonora, complessa e geniale, il cui difetto principale tuttavia fu proprio (come accade talvolta) il limite del suo raggio d'azione.
In altri termini il Rock Spaziale, similmente ad altre denominazioni come Muro di Suono e Rock Cosmico, fu più un'idea, una luminosa e geniale intuizione cui mancò la concretezza della traduzione in un vero e proprio "genere": troppo caoticamente geniali le idee per essere canalizzate in un codice espressivo ben definito, e dar vita ad un linguaggio musicale riconoscibile, ad un universo di simboli e significati,  forse troppo breve l'arco temporale a disposizione o troppo concentrata su altri centri focali l'attenzione dei musicisti coinvolti per costruirne l'indispensabile grammatica interiore.
Come in altri casi, quindi più che di un mutamento in profondità si trattò di un nobilissimo lavoro svolto tuttavia "altrove" rispetto alle musiche prodotte dalle due bands di maggiore importanza: Spacemen 3 e Loop.

La spazialità architetttonica e ambientale trasposta in suites armoniche pesanti, electro-rock e strutturate secondo lo schema della circolarità reiterata fu maggiormente dovuta al lavoro di ingegneria del suono e mixaggio che non ad una reale innovazione pienamente dispiegata al livello strumentale. Dei due gruppi, i Loop di Robert Hampson (page three) manifestarono un talento assolutamente fuori dal comune,  prefigurando il passaggio dall'estremizzazione delle intuizioni post-Velvet Underground degli Autori di "Psychocandy" al "genere" (anche qui varrebbe la stessa considerazione) denominato "shoegazing". Tanto influenti quanto poco auto-consapevoli delle (enormi) potenzialità, i Loop si sciolsero dando vita a due progetti che ne raccolsero l'eredità: The Hair & Skin Trading Company,  più ritmici e avantgarde-noise con molte sfumature elettroniche (page four ) di John Wills e Neil Mackay, e i Main, del guitar-leader Robert Hampson.

Dopo gli EP "Hydra", "Calm", "Dry Stone Feed" e "Firmament", ora esce il vero e proprio "esordio" sulla lunga distanza "Motion Pool". Laddove nei singoli precedenti (soprattutto "Dry Stone Feed") il suono chitarristico spinto al rumore puro, assordante,  in vari segmenti scandito dal ritmo ipnotico, meccanico e alienante della drum machine, sembrava ora dare quasi l'illusione (o meglio: il miraggio psichedelico) di aperture melodiche, caratterizzandosi nel complesso per il semplice fatto di mettere a durissima prova l'ascoltatore (difficile reggere l'impatto con "musiche" che pur strutturate in modo compatto, pur pregevoli per l'autentico talento chitarristico, si pongono come l'assoluto contraltare della "Metal Machine Music" di Lou Reed), in quest'opera a suo modo monumentale e dall'indiscutibile fascino estetico, Robert Hampson giunge a quella stilizzazione concettuale del virtuosismo chitarristico cui egli stesso da il nome di "drumless space". Le tracce racchiuse infatti (il simulacro industrial di "Rotary  Eclipse", gli interludi ambient di "Liquid Reflective" e "VIII", le suggestioni visive di "Crater Scar" e "Rail") sono connotate dalla totale assenza di percussioni, dall'impiego frequente di drones e campionamenti più o meno nascosti, a formare forse un tappeto sonoro più morbido ma paradossalmente ancora più difficile da esplorare degli episodi precedenti, forse un continuum electro-chitarristico in cui le pause tra le varie composizioni sono più convenzionali che realmente necessarie.
Difficile dire fino a che punto il gelo siderale che a tratti si avverte ascoltando quest'album assomigli al cielo cui si faceva cenno all'inizio,  fino a che punto è pensata e fino a che punto è sentita: quanto c'è di volutamente concettuale e puramente astratto e quanto di autenticamente suggestivo in quanto evocativo di scenari ora statici, ora liquidi e sommersi, ora incandescenti e lavici, ora gelidi. 
Secondo il punto di vista di chi scrive si potrebbe realmente trattare, al di là di questi tentativi di racchiudere un'opera così indefinibile entro i limiti di una definizione, di un disco di importanza fondamentale, per il suo carattere sfuggente, spiazzante e al tempo stesso così monolitico, quasi una "Ummagamma" digitalizzata in codice binario. O la messa in scena, in un unico, interminabile loop, di scenari più o meno involontariamente creati nell'immaginario di chi ascolta. Mi sento in chiusura di condividere le parole di Piero Scaruffi, che riporto: "vicini alle glaciali superfici di Stockhausen,  i Main danno vita a una musica classica delle distorsioni chitarristiche". "Movement No-Movement like a falling bird. . . ", pur calato in un liquido contesto di moto illusorio, pur estenuante nell'impegno che richiede all'ascoltatore, quest'opera dei Main ha sicuramente un pregio, a mio parere indiscutibile: mette cioè in discussione l'opportunità, ancor oggi (ammesso che sia mai esistita) di porre limitazioni di genere e confini, primo tra tutti quello tra "rock" e musica "classica".

  

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