
…e la stua thentha feuc.
Maria ha 90 anni. Una vita agra, costellata di morti come una coperta rimasta troppo tempo accanto ad un fuoco e cosparsa di buchi lasciati da troppi tizzoni ribelli, minuti ed incandescenti. Il nome del territorio su cui è stata posta dal destino regala, da solo, una ventata di amarezza: Cjargne, nome arcigno, nome impastato della stessa roccia da cui deriva. Un nome, Carnia, che ha tanti etimologici fratelli quanti sono i molteplici fenomeni carsici, rappresentanti ferite sul dorso della terra: foibe, doline, inghiottitoi, campi solcati, fori di dissoluzione. Maria ha passato l’intera sua esistenza in un luogo legato, nel nome e nel suo stesso essere, a enormi fori che hanno mangiato vivi uomini e donne e a buchi infimi che hanno bevuto il sangue di stirpi di soldati.
In un paese carnico (Damâr, Preon? ma che importanza ha?) ha visto morire il marito e quattro dei suoi sei figli; ha visto la vita scorrere in novanta rotazioni stagionali, accompagnata da gesti antichi perfezionati dal loro continuo esercizio e segnata da lavori faticosi, aspri, durissimi.
Il suo volto risplende di rughe appena accennate, i suoi occhi brillano ironici quando rispondono al saluto del nipote, mentre la mano risponde a modo suo, abbattendosi lieve sopra le orecchie del canaj. Nerovestita, come si dice sia la morte, Maria è un’icona di vita, di misurata vitalità. Un professore universitario probabilmente sorriderebbe compiaciuto davanti alla semplicità della vecchia. Non sa che Maria, dieci anni prima, ha lasciato basito un suo simile durante la cerimonia di laurea della nipote. “Allora, signorina, io e lei reagiremmo in un modo ben diverso rispetto ad un contadino all’annuncio di una nostra ipotetica malattia oncologica. La nostra cultura ci pone su un piano di reazione differente. O sbaglio?”. Al che Maria: “Lei reagirebbe come farei io: l’arroganza non aiuta, davanti alla malattia. Neppure se l’ha studiata.”.
E così prosegue, leggera come gli scufons sulla neve, accompagnata da una saggezza profonda perché nativa, non imparata o costruita, tanto semplice quanto radicata come quegli alberi che emergono dalla terra e si immergono nella terra in equivalenti proporzioni.
Il 13 ottobre 2010 Maria si inoltra nel bosco in cerca di castagne. Riempie il suo sacco di iuta, senza badare all’approssimarsi del tramonto e all’entità della strada percorsa. Giunge la notte. Perde la via fino ad ora percorsa. Smarrirsi nel bosco è un’esperienza angosciante. Nord, sud, est, ovest. Il muschio è ubiquitario. Non puoi seguire il cammino del sole. Destra, sinistra, sopra, sotto diventano categorie assurde, compenetrate l’una nell’altra in un caos che opprime il petto, fa capovolgere la testa e che genera nella mente pazzi spiritelli ingovernabili. In più l’autunno carnico può essere rigido, a volte mortale. Maria non teme lo spettro degli zero gradi, non il fantasma del terrore irrazionale del bosco, non il profilo della morte. Un sapiente riparo di foglie secche e rami, il suo vestire sobrio e adatto ai rigori del freddo e, soprattutto, un animo protetto in pari misura da fede, ironia, coraggio, forza e consapevolezza. Altro non serve a Maria per attendere l’alba e con essa i soccorsi, guidati dal nipote, disperato tanto quanto lei era tranquilla.
“Vieni, nonna, ti portiamo subito all’ospedale.”
“E invece aspetti. Tutta la notte qui fuori per un sacco di castagne e vuoi che le lasci ai cinghiali?”
Ho letto in questi giorni di Elisa Benedetti, la ragazza di 25 anni morta di ipotermia in un bosco a dieci chilometri da Perugia: in preda al panico non ha saputo trarsi fuori da quella che è diventata una tragedia. Una ragazza dalla vita normale, dicono. Studi, un fidanzato, un bancomat, probabilmente nessun problema di denaro. Con qualche sbandata per droga e alcool.
La sua triste morte mi ha fatto pensare che, come mi insegna saggiamente l’utente Tomgil, “la verità è che nella vita non c'è sempre bisogno di guardare alle tragedie altrui per avere un'idea di che cosa sia la sofferenza.”. E, come corollario, aggiungerei che dietro un’apparente serenità possono nascere tragedie immani, mentre da tragedie oggettive possono nascere fiori di forza inaudita.
Ho pensato che l’esempio di umili sconosciuti come Maria rappresentano un’iniezione di forza, di rettitudine, di onestà verso la vita.
Ho pensato che, quali che siano le storture dei nostri caratteri, i dolori che ci piovono addosso, i difetti che ci attanagliano, abbiamo il dovere di non cedere fino all’ultimo: per rispetto verso noi stessi, verso la nostra dignità, verso chi ci ama.
Ho pensato che il giudizio negativo nei riguardi delle persone deve essere sospeso se non hai mangiato con loro almeno dieci chili di sale (come dice Rigoni Stern). E dunque paragonare Elisa a Maria, etichettarla come una viziata drogata, incapace di salvarsi la vita perché troppo stupida (cosa che, da vero balordo, ho fatto io, immediatamente) non è solo sbagliato: è soprattutto moralmente ingiusto e malvagio.
Ringrazio Maria per la lezione che è riuscita a darmi. E, pur, non conoscendola, spero che Elisa possa riposare in pace, se non ha potuto farlo da viva.