Utøya/Jamrood

Da quando ho compreso la grande coerenza di tutte le genie di fanatici razzisti sparsi per il mondo ho iniziato provocatoriamente a tramutarmi in mostro. Le bionde famiglie ariane dei sobborghi tedeschi o americani, i solitari paranoici che pullulano nelle foreste norvegesi, gli estremisti religiosi che vedono nel secolarismo dell’uomo occidentale la fucina di tutti i mali sono accomunati dall’ammirabile coerente fermezza del proprio odio.

Quando simili individui iniziano a camminare nel mondo dipingono il proprio nemico. E a quel ritratto rimangono fedeli spesso per tutta la vita, proclamando con feroce orgoglio la propria superiorità su negri, froci, ebrei, occidentali, atei, appartenenti ad altre religioni, ad altre etnie, ad altri stati. Fermezza e coerenza, nessuna vergogna nell’ergersi come paladini di un proprio universo immaginario che si staglia come un monolite su fetide pianure popolate da nemici inumani ed inferiori.

La strage compiuta da Breivik in Norvegia è stata la causa che mi ha portato a riconsiderare alcune assunzioni. Nell’isola Utøya sono stati uccisi circa 76 ragazzi appartenenti alle sezioni giovanili del Partito Laburista. La commozione generale è stata grande, foto e video ad alto tasso di emotività si sono susseguiti per lungo tempo, copiose sono scese le lacrime nel ricordare la strage. Ognuno di questi 76 virgulti della buona borghesia europea, multietnica, colta, liberale e antirazzista è stato pianto come martire dell’Europa, come vittima della barbarie estremista. Mi sono chiesto da cosa derivi invece la freddezza con cui è stata accolta la notizia della strage presso la moschea di Jamrood in Pakistan, datata agosto 2011. Eppure anche li sono morte decine di persone ad opera di un fanatico imbottito di esplosivo, persone con storie, volti, sogni, desideri esclusivi.

Allora ho meditato. Ho pensato che se vieni ucciso e sei biondo e benestante, oppure se hai un volto esotico ma un pedigree, socialmente parlando, di tutto rispetto, la tua morte produrrà una commozione che spingerà ad organizzare marce, fiaccolate, sfilate ed ogni altro tipo di ributtante manifestazione necrofila in tuo onore. Se invece il tuo futuro è quello di diventare pastore come migliaia di avi prima di te, se sei coperto da una lunga barba nera e da un turbante, se sei una donna resa invisibile da un lungo velo, la tua uccisione porterà ad un articolo di fondo sui quotidiani ed ad un rapido oblio. Nessuna lacrima, nessuna fervida meditazione sul valore della tua vita spezzata, nessuna intervista ai tuoi tutori universitari. Anche perché all’università non ci vai neppure.

Questo potrebbe anche essere una cosa giusta e ragionevole, ma solo sottostando a varie condizioni. Che nessuno di coloro che hanno pianto per Utøya e hanno taciuto per Jamrood si permetta di discettare poi di lotta al razzismo, di umanità, di rispetto sconfinato per il prossimo. Che tutti questi abbiano il coraggio di diventare coscienti del proprio inconsapevole razzismo, nutrito della convinzione che esista una sola razza degna di pianto dopo la morte violenta: la nostra, quella che dimora nel nostro villaggio ingrandito, quella che realmente è composta da uomini e non da primitivi dalle rozze tradizioni, subumani eternamente in guerra con i quali c’è ben poco in comune.

A dispetto dell’informazione che oggi viaggia rapida e tutto può far sapere di tutto il mondo, restiamo sostanzialmente gli stessi da molti millenni: ma se un tempo si ammetteva l’esclusiva importanza del proprio piccolo gruppo, oggi si pretende di includere nel nostro interesse sincero l’intero mondo; Utoya e Jamrood, l’entità della reazione, totale e nulla, sono qui per indicare la nostra stessa iniquità, la nostra stessa mancanza di coerenza.

In sintesi, il nostro stesso razzismo.


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