E' il 1987 quando i Malibran decidono di provare a dir la loro nel "detalked show" del progressive rock, quel genere musicale da sempre considerato di nicchia, quasi incompreso e snobbato dai promo-emittenti musicali. Pochi hanno realmente vissuto appieno gli anni dell'emancipazione di questo genere; Potrei essere il primo della lista, con i miei 23 anni e la mia "cultura pratica" anni 90. Se gli Area, I balletto di Bronzo o i P.F.M. in Italia nel 90 avevano detto la loro da troppo tempo, i Genesis o i Jethro Tull avevano già marchiato a fuoco la storia della musica, imponendo l'attenzione mondiale sulla loro macchina intellettualoide.

Spostiamoci rapidamente tra gli emisferi del nostro mappamondo, tornando in Italia e in particolare a Catania. Il viaggio dei Malibran continua tuttora a emanare sapori di una battaglia che, a dir loro, "sarà, vita contro oscurità". A testa alta sfornano, dopo le loro prime tre uscite, un album progressive che non deve dar conto a nessuno, e che continua a sfidare caparbiamente il mercato ormai dominato dall'usa e getta. Quello dove non ci si ferma quasi più ad ascoltare, a fruire realmente della musica: dove 12 minuti per una canzone sono tabù per le proprie orecchie (12 minuti? maleducati, volgari!). E' con i 12:20 di "Si dirà di me" che inizia Oltre l'Ignoto (2001, Mellow Records): esecuzione impeccabile, composizione perfetta. Se il sound, come dicevo, non rinnega le sue chiare influenze (impossibile non collegare il flauto ai Tull di Andreson), al suo interno emergono spunti e innesti semi-elettronici che sorprendono per la loro audacia: il piano sembra uscito da una composizione di Alan Parsons! Il loro lavoro si spiega in un concept album di otto brani, ciascuno dei quali compone uno squarcio di un lungo e infinito viaggio: viaggio che la band affronta, tra le parole di Giuseppe Scaravilli, il vento alle vele soffiato da flauti, sax, tastiere, violini, percussioni e coraggiosi capitani al basso (Angelo Messina), chitarra (Jerry Litrico) e batteria (Alessio Scaravilli). Coraggio che permette loro di proporre alla fine del disco, come ghost track, anche una splendida intepretazione della Bouree di Joahnn Sebastian Bach. La cura con cui ogni pezzo è eseguito mi ha ad ogni ascolto liberato e trasportato in viaggio con loro, senza caricarmi di malinconia. Sapevo che alla fine dell'album li avrei lasciati al loro destino: quello che loro stessi si son tracciati e che Scaravilli sul retro del CD ha voluto sottolineare.

"Un lungo viaggio per mare in cerca di terre nuove, con il ricordo dei giorni passati e l'entusiasmo per quelli a venire. Alla volta di mondi ancora sconosciuti, oltre l'ignoto..."

Nella ormai decadente "Seattle d'Italia", come alcuni con orgoglio amavano chiamarla nei tempi d'oro dei suoi (presunti) fermenti musicali, c'è qualcosa di molto più tangibile di una stupida etichetta commerciale: i Malibran.

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