Lucidi nel trascinamento mitteleuropeo di una trinità "monocolo papillon champagne", sorseggiato facendosi scappare qualche parola austro ungarica, armeggiano un dark-synth che asseconda fantasmi annoiati dalla facilità della presa in atto delle possessioni. Dance-wave che scava svogliata nelle nostre indigenze assecondando la pippa dell'eternità tanto per millantare e mistificare spettri asburgici convertiti ad un orinatoio ceco stimolato a suon di boccali di birra Pilsner.
E il trascinamento orgoglioso è nel suo dinamico tedio interessante e tentatore nel risvegliare un ulteriore accanimento nel perseguire più impersonalità, perché della fumosa vita si aspiri ad una nebbia che ci faccia scomparire con lei al primo raggio di sole. Stridii, giusto per far capire che siamo qui, ci guidano in ripostigli dove l'oscurità spiega più di barlumi e l'occultamento è ricercato con una brillantezza nel sottolineare bagliori di condivisioni spurie di considerazioni.
Soli e non accompagnati si crea un'atmosfera che tranquillizza nella latenza di un ricordo d'angoscia che ci strappa un sorrisetto dal passato. Non si gioca più con le ombre, quando il gaio oscurantismo per assurdo invece che la fine suggerisce un'apertura ad un mondo reale che si manifesta presente vicino a noi ma rarefatto nel palleggio di un gioco antico dove i protagonisti amano la propria noia.
Più che una sveglia, le apparizioni di quella tromba squillano abbocchi ad eventuali nuovi adepti di quest'attraente adombratura per instradarli su prove di svanimenti, di investizioni di maschere (vedi la copertina) di momentanei inganni dove ci si muove su una scacchiera che esponenzia, casella per casella, il baratro disinteressato dell'infinito.
Ho avuto la fortuna nel 2017 di vederli dal vivo per una reunion in un club vicino casa mia, il Kaštan Unijazz, dove ho assistito ad un concerto perfetto. Nell'appendice post performance, nel parlare coi musicisti, è seguitata quella "presa in giro" di cliché di motivetti synth-disco strimpellata con nonchalanche millenaria "tanto per fare qualcosa", che ci lancia in un revisionismo materialista rivalutando pesantemente (per la nostra psiche) quella cosa che "gli ultimi saranno i primi", tanto è il gap di assenza dal tangibile che queste arie dance attraggono con calma, di percepire sempre un filo di Arianna che allevia la paura di non ritornare alla base.
Un pathos casuale è raggiunto sul pezzo finale che ci accompagna blandamente ma irreversibilmente a un suggerimento amichevole del tappeto sonoro nel ricordare che i giudizi ce li facciamo sempre da soli, dipende cosa abbiamo seminato.
Rituali astrusi, astratti, asettici che procurano un'aritmia atemporale di trascorsi gloriosi che seppelliscono beltà di un involucro organico che si inebria di fallimenti centrando il bersaglio di rimembranze di oscenità applicate nel passato, prendendo in giro il mostruoso, effimero strumento, con l'illuminazione scandita con quei campionamenti e programmi dove l'incedere burlesco di batterie elettroniche dà il ritmo ad una performance volutamente inconclusa, ma anche gigioneggiando quando accende la discoteca mistica in noi.
MÁMA BUBO: Karel "Bubol" Babuljak, Vlatislav Matoušek, Jiří "Bubochar" Charypar, Jan Máša.
"V Cechach najdes pritele", in Boemia troverai amici...
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