Insomma, parliamoci chiaro, i Manic Street Preachers dell’ “era Richey James Edwards” non sono solo quelli di “The Holy Bible” o “Generation Terrorists”. Forse sono una parte, ma certamente non tutto. Mi pare che nel booklet di “Generation Terrorists” ci fosse una citazione di E.E. Cummings che diceva: “ Il progresso è un disagio confortevole”.
“Gold Against The Soul” parte proprio da lì, ci costruisce un’etica sul disagio: tra una sezione di archi e l’altra, tra un riff e l’altro del bravo James Dean Bradfield nasce questa rosa maledetta i cui petali avvelenati sono le liriche di Richey James. Ebbene sì, “Gold Against The Soul”: una sinfonia del disagio (“Symphony Of Tourette”).
Forse il loro disco più filosofico e poetico insieme, dalle mille sfaccettature, dove tra un brano e l’altro l’eleganza tipicamente gallese di Philip Larkin e Dylan Thomas diventa quasi tattile. Ma qui ascolta, chi davvero si abbandona all’ascolto, non se ne cura più di tanto, si lascia trasportare. Tutto qui. "A memory fades to a pale landscape”.
E allora non si può non ritenere un capolavoro “Sleepflower”. Minuto dopo minuto ti trascina nelle sue atmosfere cupe ( le stesse di “Small Black Flowers That Grow In The Sky”, la canzone più bella di sempre). Echi rimbaudiani, una “Stagione in Inferno” sbiadita.
L’uomo in rivolta che cerca di riconciliare se stesso con gli elementi naturali, di ritrovarsi nel mondo e, nel momento in cui si abbandona alla constatazione che tutto questo è impossibile, si trasforma nell’ "eroe assurdo" di “From Despair To Where”, personaggio eternamente scisso che non comprende se la sua condizione umana sia reale o meno (“Cannot tell if it’s real or not”).
Ogni possibile rivolta, “ribellione metafisica”, per dirla con Albert Camus, è negata, non ancora permessa, non è possibile conquistare se stessi né il mondo. Eppure questa realtà diventa comune a tutti, persino al valoroso soldato di “La Tristesse Durera ( Scream To A Sigh)” che decide di vendere la propria medaglia al valore per pagare un’insulsa bolletta, o al protagonista di “Yourself” per il quale è impossibile trovare un senso nella ripetitività dei gesti quotidiani, nelle false illusioni su cui si costruisce la consapevolezza di se stessi (“You go on day after day/ oh- ooh/ Dreaming on a lie/ That you keep locked inside”).
Una volta Edwards, durante un’intervista, si trovò a dire che l’unico cerchio perfetto è rappresentato dall’occhio umano nel momento in cui c’è una palpebra a proteggerlo: schiudendola,ci si ritrova davanti a una sorta di spirale discendente dove tutto nasce, cresce e poi muore.
Come gli occhi del bimbo di “Life Becoming A Landslide” quando si affacciano sul mondo, e subito l’impatto con la luce diventa qualcosa di meravigliosamente violento, affascinante. E poi l’amore, la gelosia, la decadenza perfetta che procede dall’infanzia (“I don't wanna be a man”), età mitica, ideale, felice, alla senilità (“Everyday more numb to agony/ This the howl this the sigh of the lonely”), decrepita, corrotta. Testo a metà tra il mito dell’eterno ritorno di Nietzsche e la poetica di William Blake.
Anche dal letame nascono i fiori: è questo il senso di “Roses In The Hospital”, la strana idea che un pezzo di felicità e di vita possa germogliare anche da un luogo di morte e dolore quale potrebbe essere un ospedale. Ciò che conta è accettare la morte, come il Meursault de “Lo Straniero” di Camus, volere la morte, liberarsi dalle speranze (“Nostalgic Pushead”), dalla futilità del quotidiano. Non si spera più, non ci sono più avventure o false chimere: “Gold Against The Soul” e la catarsi del rock’n’roll : epilogo di un disco.
Bisogna cercare, diventare, professare la propria verità. Solo quella.
“Rock’n roll has a conscience”.
Richey James, grazie.
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