Il disco più ruvido dei Manics, il loro sesto, il secondo interamente composto senza il supporto di Richie James, è sempre stato anche il più criticato, trascurato, malvisto. Perché, nell'ordine: è troppo grezzo, propone uno stile artatamente punk che non calza alla band, è troppo funambolico, è troppo lungo (!!). In effetti il disco è sporco, moderatamente duro, parecchio vario, senz'altro molto lungo (sedici brani, più una traccia nascosta). Il che, francamente, a me è sempre piaciuto moltissimo.

Gran parte del merito di questa ruvidezza va alla produzione pesantemente invasiva di Dave Eringa, anche se, non c'è dubbio, i Manics ci mettono del proprio, attraverso un utilizzo più aggressivo delle chitarre e una scrittura più eclettica e sghemba, e quindi più manipolabile. Nel disco c'è un po' di tutto, senza che il risultato sia eccessivamente eterogeneo: si va dalla partenza punk-rock di "Found That Soul" (notevole) al disco-funky di "Miss Europa Disco Dancer", dal rock-folk di "The Year Of Purification" al country-blues di "Wattsville blues", fino a vere sparate di brit-rock come "Dead Martyrs", che sfoggia pure un attacco inconfondibilmente joydivisioniano, o la conclusiva "Freedom Of Speech Won't Feed My Children". I momenti migliori stanno in "So Why So Sad", che ai cori beach-boysiani della strofa unisce un ritornello in cui emerge il cantato nostalgico di Bradfield, in "Ocean Spray", pezzo mid-tempo che fa respirare il salato del mare e che ha il suo picco in un maestoso assolo di tromba, e nell'amarezza di "His Last Painting", sorretta da un semplice ma efficace arpeggio acustico.

In realtà l'album non ha evidenti cali di tensione, ma solo qualche flessione in passaggi più vagamente insapori ("Baby Elian"). Wire offre sempre un'alta qualità nella scrittura dei testi: spiccano l'evocazione dell'incontro cubano con Castro (nell'apprezzabile "Let Robeson Sing") e i virtuosistici citazionismi di "The Convalescent", autentico collage informale che fa incontrare la passione per l'arte dei Manics e la loro postmoderna stratificazione di quotidiani logorii ("Kleenex kitchen towels and teletext tv: my favourite inventions of the twentieth century"). Piacevole anche la parte conclusiva, dove di solito i Manics tendono a perdere colpi (vedi l'ultimo disco): "Royal Corrispondent" oppone un basso ultradistorto all'acustica malinconia di Bradfield, "Epicentre" attacca con un arpeggio banalmente geniale, per poi arricchirsi di un accompagnamento di tastiere che ingentilisce il consueto stile dei Manics, qui quasi tropicale, e ormai sempre più pop. Da citare anche la nascosta "We Are All Bourgeois Now", cover dei McCarthy.

Disco senz'altro meno compassato del precedente "This Is My Truth Tell Me Yours", non è in realtà, come si è sempre detto, un tentativo andato a vuoto di recuperare i fasti sfocati e sprezzanti di "The Holy Bible". È, piuttosto, un avvicinamento alla maturità più spiccatamente pop dei Manics di oggi attraverso un percorso più tortuoso e ondivago, ma sempre a buoni livelli: l'ispirazione di certo non manca, e l'ambizione di travestirla fantasiosamente con arrangiamenti vistosi e magari anche un po' debordanti va apprezzata, anche perché, a ben vedere, centra il bersaglio quasi sempre.

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