Il gruppo gallese dei Manic Street Preachers tirò fuori, nell'autunno del 2004, quest'altra piccola perla, spesso però bistrattata, alla stregua di un qualsiasi disco non "a livello".

Si tratta, piuttosto, di un'opera insolitamente profonda, quasi cerebrale, trasudante emozioni forti ma che allo stesso tempo riesce a risultare quasi distaccata, senza eccessivo coinvolgimento personale da parte degli "attori": il suono limpido, cristallino, quasi freddo della chitarra, e l'effettistica, parte integrante delle strutture sonore - seppur mai abusata - non può che donare l'impressione di una sorta di testamento spirituale, di omaggio più che dovuto a se stessi, di strizzatina d'occhio ai tempi andati, oltre ad essere l'ingrediente forse principale di un'opera forse non imprescindibile ma quanto meno estremamente intrigante.

Quella dei Manics è una musica intensa, possente, fortemente emozionale, pur senza risultare praticamente mai dall'utilizzo di distorsioni, di riff veloci, di intense scale: la loro capacità innata di essere delicati ed al contempo far vibrare le corde interiori dell'ascoltatore fa quasi pensare, in alcuni frammenti, agli R.E.M. (mi si passi il paragone, non è una similitudine stilistica con Michael Stipe e compagni, anche se ritengo non sia un'ipotesi del tutto azzardata).

La prima gemma che sprizza nostalgia senza vergognarsene è "1985", dedicata all'anno di formazione del gruppo, sostenuta da un giro di tastiera di poche note ma quasi trascendentale, mentre James D. Bradfield canta "So God is dead like Nietzsche said, superstition is all we have left" - a mio avviso la vera essenza del nuovo corso musicale dei Manics sta proprio nel coniugare poche, quasi scarne, componenti, in quel modo magico e sublime - o forse subliminale?

Segue "The Love of Richard Nixon", vero simbolo di "Lifeblood", assolutamente perfetta nella sua semplicità, bilanciata, dal caratteristico synth ossessivamente ritmato, e dall'incedere regolare e senza eccessive variazioni sul tema - degni di nota gli sporadici inserti chitarristici - che sembra però la colonna sonora perfetta per un clip sulla Casa Bianca. Il testo sembra quasi un apprezzamento per il lavoro del disprezzato presidente repubblicano '68-'74, misto comunque alla consapevolezza che quanto di buono Nixon fece fu cancellato dagli evidenti errori della sua amministrazione.

"Empty Souls" brilla grandemente per lo sgocciolante e cristallino giro iniziale, che però torna frequentemente a dare il tipico sapore alla canzone, peraltro ben fatta e senza eccessivi fronzoli, ad eccezione, forse, delle parole "empty souls" che nel cantato sembrano quasi buttate lì un po' a caso. Molto più tradizionalista, invece "A Song for Departure", dove c'è più rock e meno ingegneria psicologica - una buona canzone, tutto sommato; "I Live to Fall Asleep" è forse la prima canzone a scendere significativamente di livello, e ad essere un po' vuota e certamente ripetitiva e scarsamente comunicativa.

Arriva a questo punto quella che considero essere il pezzo in assoluto migliore del disco: "To Repel Ghosts". Davvero unico il mix, perfettamente riuscito, tra il riffing e la tastiera di sostegno, una strofa discreta al punto giusto, un pre-refrain che richiama, con un po' di fantasia, i più spirituali System of a Down, ed un ritornello assolutamente sopra le righe, il cui risultato non può non essere un brivido lungo la schiena.

Delude invece "Emily", priva forse priva di quelle caratteristiche che avevano fatto la loro parte nei pezzi stupedi citati prima, pur se non del tutto estranea al sound dell'album, "Glasnost'" è un curioso pezzo che oscilla, con risultati più o meno buoni, tra lo scherzoso ed i magistrali ritornello e breve assolo.

Tra gli ultimi quattro brani, "Always Never" e "Solitude Sometimes is" non aggiungono granché a quanto già mostrato - la mia ipotesi è che siano stati registrati nello stesso momento di "I Live to Fall Asleep", quando cominciava a sopraggiungere un po' di stanchezza e di mancanza di idee. Seppur lentissima e lontana dai canoni di "1985" e "To Repel Ghosts", "Fragments" risulta piacevole e, nel suo piccolo, originale. Chiude "Cardiff Afterlife", su livelli medi, senza gloria e senz'infamia.

In definitiva, un disco senza dubbio non paragonabile, per più di un aspetto, alla produzione storica della band, ma che testimonia, attraverso qualche perla assolutamente non denigrabile, che la carriera dei Manics non era ancora giunta al capolinea, nel 2004.

Una nota personale: i miei complimenti A James Bradfield, eccezionale nel nascondere il proprio orribile accento gallese, e sostituirlo egregiamente con uno americano che risulta gradevolissimo.

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