Questo autunno 2004 ci ha "regalato" il ritorno dei due gruppi più famosi e amati del mondo da più di un decennio (U2 e R.e.m.) con esiti controversi e discordanti. La critica, e l'opinione pubblica, sono ancora divisi tra chi giudica questi lavori come una encomiabile evoluzione dello stile di queste band e chi invece mostra impietosamente il pollice verso, additando l'accusa di imborghesimento e di vena creativa esaurita. Lo stesso discorso si può tranquillamente applicare all'album del ritorno dei Manic Street Preachers, formazione che in dieci e passa anni di carriera ha praticamente compiuto tutte le "tappe" necessarie a una rock 'n' roll band per aspirare allo status di "icona". Non eccessivamente acclamati in Italia, i Manics in Gran Bretagna (e nell'"isola che non c'è" dei fans in tutto il mondo) sono un'autentica istituzione alla pari dei due gruppi prima citati.
Chiaro che l'attesa generale fosse piuttosto alta, visto il flop del precedente "Know Your Enemy" (2001), decisamente poco ispirato. Per questo "Lifeblood" James Bradfield & co. hanno decisamente cambiato direzione, abbandonando definitivamente gli slogan e la rabbia dei primi lavori (quelli con Richey James)>strong> per abbracciare l'aspetto più intimista e malinconico della loro musica. Il risultato è che "Lifeblood" è senza dubbio il disco più accessibile di tutta la loro carriera: praticamente nullo il contributo delle chitarre elettriche, la band sposa il pop nel vero senso della parola. Ossia, se negli anni "duri" del gruppo l'intento era di raggiungere la sensibilità del pubblico attraverso le provocazioni e l'efficace arma del punk, ora il tentativo è lo stesso ma è cambiato lo "strumento", anche perchè i tre gallesi non hanno più 19 anni. I richiami agli anni '80 e alle tastiere à la Keane sono palesi subito nella prima traccia, non a caso intitolata "1985", epica come nella migliore tradizione del songwriting della band. C'è da dire che il disco suona amaro, disincantato e dolcemente "sotto le righe", e anche la voce di Bradfield sembra quasi rinunciataria, per quanto come sempre limpida e intrigante (si dice che dietro questa "svolta" sonora ci sia Tony Visconti).
Il singolo "The Love Of Richard Nixon" è però piuttosto debole malgrado il testo interessante, e a dire il vero sembra quasi che i Manics rincorrano per tutto il disco la grande hit ma non la trovano mai, e l'ascolto non necessita particolari sforzi vista l'impronta volutamente "elementare" delle canzoni.
Ciò non toglie che ci siano tuttavia brani di chiara bellezza come il prossimo singolo "Empty Souls", che ricorda gli U2 di "New Year's Day", l'inquieta "A Song For Departure" (che fa pensare ai Pet Shop Boys!) e la romantica "Emily", il pezzo migliore del disco, quasi un inedito degli Style Council.
Le melodie sono gradevoli, i testi intelligenti e riflessivi, la voce di Bradfield è come sempre un must: è un pop a volte un po' all'acqua di rose, questo va detto, ma è raffinato e affascinante come pochi altri tra quelli proposti nel musicbiz. Non credo che una canzone come "Solitude Sometimes Is" comparirebbe mai in un album di Madonna. Ma è anche vero che questo è un album che potrebbe fortemente scontentare i fans storici dei Pazzi Predicatori di Strada, così distante da "Generation Terrorist" e il supercult "The Holy Bible" e diverso anche da "Everything Must Go". Per chi invece segue il gruppo e ne apprezza i cambiamenti e l'evoluzione, è senza dubbio un disco consigliato. Io sono ancora un pò indeciso, e onestamente non so ancora bene cosa pensare, quindi nel dubbio dò una sufficienza piena ma niente di più.
Carico i commenti... con calma