A chi mi chiede del mio immenso amore per la musica, io rispondo che la musica mi ha salvato la vita. Banale quanto vi pare, scontato, ma è così.
Perché ho avuto quello che si dice un'adolescenza difficile. Abbandonato (nel senso di scappato) dalla figura paterna a dodici anni, puoi averla solo che difficile, l'adolescenza. Ma non sono certo qui, domenica mattina alle nove prima di andare ad un matrimonio, a scrivere di cose tristi e a volervi far piangere: vi basti sapere che all'età di 16 anni ho avuto il mio massimo "momento no". In quell'estate conobbi i Manics. Amore a prima vista. Redenzione (parziale) ed allontanamento (parziale) da droghe e cattive compagnie, perché finalmente avevo qualcuno che mi parlasse. Non mi dicevano mai cose banali, i Manics. Con la loro immagine a metà tra Clash e New York Dolls, con testi che fuggivano sistematicamente dal clichè amore-sesso-divertimento. Parlavano di anoressia e sistemi capitalistici allo sbando, di ricoveri in ospedale e Pol Pot, di piscio e merda, di passi nella neve che non lasciano traccia, di pornografia e alienazione, di mercificazione del corpo femminile e di rivoluzioni sudamericane. Mandavano affanculo la regina ed il paese intero. E lo facevano in maniera credibile, inserendo queste robe in strutture rock-pop-punk dalla carica emotiva devastante. Una bomba.
Paradossalmente, cantavano "Suicide Is Painless" ed io al suicidio non pensavo più. Fisime giovanili, penseranno i più sgamati di voi. Sarà.
Comunque. Gli anni passano, le cose si sistemano, le relazioni si pacificano. I Manics scrivono il loro capolavoro ("The Holy Bible", tutti dovrebbero averlo), perdono Richey James, si imborghesiscono, diventano più pop. Io continuo a seguirli, fedelissimo e riconoscente. L'anno scorso esce uno dei loro lavori migliori di sempre ("Journal For Plague Lovers") ispirato dalle liriche di James, tirate fuori da qualche cassetto polveroso. Un ritorno alle sonorità crude degli esordi.
Ad appena un anno di distanza eccoli fuori con un nuovo lavoro, nelle dichiarazioni degli interessati "uno dei nostri dischi più pop, un attacco al sistema delle comunicazioni di massa". Ce l'hanno sempre avuta questa fissa da comunisti, dire cose rivoluzionarie in brani estremamente comunicativi ed accessibili, per farli arrivare a più gente possibile.
Ma parliamo del disco. Sgombriamo il campo dagli equivoci: "Postcards..." è uno dei lavori meno riusciti dei gallesi. E non poteva essere altrimenti, avendo fatto uscire uno dei loro migliori album appena 12 mesi fa. Contiene 3 grandi canzoni, "Auto Intoxication", "Hazelton Avenue" e "Some Kind Of Nothingness": la prima dalla carica punk irresisitibile, la seconda dallo spleen poppettoso incommensurabile, la terza un pop gospel melodrammatico della madonna.
Il resto? una serie di buone canzoni stracariche di archi, cori, chitarre, melodie enfatiche. Un paio non irresistibili, che sarebbero state delle appena passabili b-sides.
Insomma, il disco è da 3. Ma io a scatola chiusa mi sono accattato la deluxe edition ed il singolo multibuy, col 45 giri incluso. Direttamente dall'Inghilterra. Perché la fede è fede.
Se non li conoscete, non iniziate da qui. Se li conoscete, e come me li amate, e come me sentite un'affinità, vi ritroverete a canticchiare "It's (not) War Just The End Of Love" sotto la doccia. Fidatevi.
Lunga vita ai Manics. E lunga vita a me. Vado a prepararmi.
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