Ogni opera creativa nasce da una precisa e ben delineata concezione del mondo. Questa regola vale per la poesia, per il cinema, per la pittura e soprattutto per la musica. I mestieranti, va da sé, proliferano soprattutto nella cinematografia e nell'industria discografica, sono molti quelli che sognano di diventare ricchi in fretta per poi svanire nel nulla. Ma se le intenzioni dei tre restanti membri di questo gruppo mi ispirano un po' di diffidenza, ciò non vale per quanto riguarda Richey James. Non ho bisogno di prove per essere certo della sua assoluta autenticità: e non me ne frega niente di quel fottuto giorno in cui Richey decise di incidersi in un braccio la scritta "4 Real" per dimostrare ai giornali che almeno lui non era uno stramaledetto pupazzo. "4 Real", un po' come dire "facciamo sul serio".
Parlavo di concezione del mondo: l'ascolto di "The Holy Bible" rivela tutta la paranoia e la disperazione che attanagliavano la mente di Richey. Le sue liriche hanno pochi eguali nella storia della musica, certamente non stiamo parlando di Bob Dylan o di Nick Cave, ma il suo agghiacciante impasto di poesia decadente, filosofia nichilista e polemica politica rimane a tutt'oggi ineguagliato.
Che poi la musica del gruppo non sia nulla di rivoluzionario è risaputo: soltanto del buon hard rock ruvido a sufficienza da fungere da perfetto sfondo alla crudezza dei testi ma melodico quanto basta da dar vita a canzoni abbastanza orecchiabili.
Probabilmente questo attutisce l'impatto delle diatribe psico-politiche della band, che, a mio avviso, sono la parte più interessante di questo lavoro, e in effetti "The Holy Bible" assomiglia più ad un trattato filosofico (una bizzarra e velenosa fusione di Nietzsche, Sid Vicious e Marx) che a un album di rock da classifica.
Il gruppo mette in mostra il proprio lato più aggressivo nel ritornello epico e disperato di "Yes", scava nella depressione da anoressia (male che affligeva James) in "4st 7lb" e rende un commosso tributo alle vittime dell'Olocausto in "Mausoleum" e "The Intense Humming Of Evil". Non ci sono virtuosismi strumentali, nessuna ritmica bizzarra, nessuna magia sperimentale. Mi ritrovo spesso a riflettere sul tipo di musica che sarebbe stato prodotto da altri musicisti avendo a disposizione un membro come Richey James. Eh già, perché se Sean Bradfield e Nicky Wire (a cui si deve parte della veemenza politica della band) rispettivamente voce/chitarra e basso fanno il proprio lavoro con competenza e con una semplicità che calza a pennello al sound del gruppo, ciò che conta principalmente in quest'album non è la musica. È quella terribile, crudele e maledettamente riuscita fusione di arte ed esperienza personale: anche se non ci si trova davanti a un capolavoro di originalità, quella semplicità e quella scarsità di sfumature musicali sono quanto di meglio possa adattarsi alla creatività di James.
"The Holy Bible" è un tunnel infinito senza via d'uscita, lo sconsolato e funereo lamento di chi non riesce a vincere le proprie battaglie personali (nel caso di James quelle contro l'anoressia e l'alcool) e nel contempo guarda il mondo cadere a pezzi. È come vedere le cose dalla prospettiva di un'altra persona, captandone le impressioni, i disagi, le paure. E non importa se i Manics diventeranno in seguito degli ottimi intrattenitori da classifica, si può sempre pensare che una volta volevano anche esprimere un messaggio attraverso la musica. Non è speranza, non è fiducia, non è voglia di vivere. Ma è espressione, è messaggio, ed è tutto ciò di cui l'Arte è composta. Ma tant'è: sono ben altri i personaggi che attirano l'attenzione delle masse. Gente come gli Oasis, ad esempio. O come i Blur (per come la vedo io sopravvalutatissimi escludendo "Blur" e "13") eh già, loro si che producono vera musica. Mica come questi quattro sballati con il pallino della rivoluzione e della filosofia.
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