Vista la gradevole moda di proporre i livereport, anche in versione “amarcord”, aspettavo anch’io il momento giusto per presentare qualcosa di mio; e visto che oggi vige il primo anniversario del Truemetal Festival, presso il Legend Clud di Milano, che propose come headliner i Manilla Road, quale occasione migliore per commemorare tutto ciò?

Arrivai a Milano nel tardo pomeriggio. Il viaggio era stato tranquillo e piacevole, grazie anche a continui sprazzi di cielo coperto che continuavano ad attenuare il caldo di luglio. Il navigatore mi portò dritto davanti al locale, esente dal caos del centro, così trovai parcheggio senza difficoltà, proprio dietro la location. Il parco era molto invitante, coi suoi pietrosi viottoli che costeggiavano alberi e praterie fiorite, così feci una passeggiata per sgranchirmi le gambe, irrigidite dal lungo viaggio, poi marciai verso il Legend. Mangiai subito, sebbene non fosse ancora ora di cena, ma sapevo che l’evento era all’insegna dell’heavy/epic metal, perciò preferii saziarmi subito, così non avrei perso nemmeno una nota di quel mastodontico concerto!

Entrai pochi minuti prima dell’inizio. Rimasi deluso quando saggiai l’ampiezza dell’interno, che poteva a malapena contenere un centinaio di persone. Mi ricordai del concerto al Buddha Café di Orzinuovi di sei anni prima, quando vidi per la prima la mia band preferita: il locale era molto più ampio e per l’occasione, fummo in grado di sfiorare il migliaio di persone. Stavolta nulla di questo sarebbe accaduto. Una location più striminzita ed intimista, per i pochi eletti, diciamo. Deglutii amaramente mentre tentavo di farmene una ragione. Da lì a poco, cominciò la prima esibizione, davanti ad una manciata di persone. Peccato perché la performance degli Aeternal Seprium fu grezza e potente; mi piacque molto.

Il primo gruppo aveva appena lasciato la scena quando io procedevo verso l’uscita per prendere un po’ d’aria, mentre i Battle Ram erano impegnati con il soundcheck. Fu allora che ebbi il picco d’emozione più alto di tutta la giornata: Mark Shelton e Bryan Patrick erano poggiati al banco del bar! Trepidante, andai loro incontro allungando un timido sorriso. Ci pensò Mark a lenire la mia timidezza, abbracciandomi come fossi un amico, come se mi conoscesse da una vita. Un fremito di gioia invase il mio corpo: la mia leggenda musicale era viva davanti ai miei occhi, e potevo finalmente toccarla con mano! Facemmo una foto, e scambiammo qualche parola. Ci capimmo, malgrado il mio inglese stentato. Dovetti lasciarli poco dopo, perché attorno ai Road si stavano concentrando diversi fans, e io purtroppo avevo già superato il mio turno. Mark mi augurò buon concerto, mentre a malincuore mi separavo da lui.

Nel frattempo, il festival continuava a svelare le sue incredibili proposte, come i granitici Battle Ram e gl’inossidabili MainPain. A seguire, un gruppo che mi colpì particolarmente, ossia gli Icy Steel, dei quali io conservo l’ononimo debut, e devo dire che il loro metallo oscuro, cadenzato e romantico, è qualcosa che ti penetra nell’anima. Rimasi di stucco anche per i pezzi che non conoscevo, tanto che mi promisi di recuperare tutti i loro dischi: dopo gli headliner, quella fu per me l’esibizione più bella! Più bella addirittura di quella dei lombardi Wotan, gruppo storico per il metallo epico italiano: la band che affonda le radici alla fine degli anni ottanta, e autrice di masterpieces come Epos e Carmina Barbarica, fece irruzione sul palco con tutta la sua selvaggia teatralità! Un Vanni Ceni in grande spolvero vocale, si divertiva ad indossare elmi e spade di bronzo, riesumando le gesta dei personaggi storici e fantastici, evocati dalle sue canzoni. Una sciagura era però in agguato: solo al secondo pezzo il bassista ruppe una corda e fu costretto ad improvvisare quasi tutta l’esibizione. Un’idiota alla mia destra urlò: “Qualcuno dia un Mi a quell’uomo!” come se l’accaduto fosse colpa del musicista. Per fortuna, ad un passo dalla conclusione, qualcuno degl’organizzatori allungò finalmente un basso funzionante per Sal, che deliziò i presenti sfruttando le sue reali potenzialità. Tutti applaudirono; io, sollevato, mi limitai a sorridere.

Quando i Wotan lasciarono il palco, avvertii una brusca accelerazione del mio battito cardiaco: era finalmente arrivato il momento dei Manilla Road! Il locale era ormai gremito. Folate di corpi sudati si avvinghiavano davanti al palco, ansimanti e ansiosi come guerrieri in attesa della battaglia finale. Io non ebbi problemi a muovermi tra la folla: ero davanti al palco già da diverso tempo, giusto ad un passo dalle transenne. Quando il riff di Flaming Metal System aprì le danze, mi lasciai andare ad un roco e strozzato urlo di gioia! Ma era solo l’inizio; l’accoppiata successiva era da cardiopalma: Masque of the Red Death e Death by the Hammer! Ero già impazzito, e i presenti con me, complice anche un audio decisamente migliore rispetto a quello sentito al Buddha nel 2008, e soprattutto un grande affiatamento tra i componenti della band, compreso naturalmente Bryan “Hellroadie” Patrik, dal timbro sempre più somigliante alla voce nasale di Shelton, cosicché i duetti tra i due vocalist, risultarono anche in quell’occasione, curiosi e piacevoli all’ascolto. Un plauso anche per Neudi, il batterista, che mi stupì perché l’avevo sentito un po’ sacrificato nell’album Mysterium (suo primo lavoro con la band), solo perché quel disco aveva delle parti ritmiche piuttosto scarne e cadenzate, in contrapposizione di quella che è la filosofia ritmica dei Road, ossia un drumming imprevedibile e articolato; un carattere che Neudi riuscì comunque ad esprimere, battendo i tempi delle vecchie canzoni!

Fra i pezzi migliori, una caliginosa e psichedelica The Ninth Wave e un’eroica e ammaliante Cage of Mirrors, in una veste molto superiore alla studio version dell’82 che ha i suoni troppo soffocati. Ricordo in particolare le parti acustiche, interpretate da Mark, e ricordo anche i miei occhi umidi nel sentire le note che uscivano dalla sua voce fiacca, ma espressiva, quasi fosse un attempato aedo che rimpiazza la corposità vocale con un professionale senso d’interpretazione e poesia, riuscendo ugualmente ad emozionare i presenti. Del resto, si sa, Mark ha problemi cronici con la voce già dai tempi di Open the Gates, problemi che col passare degl’anni si sono acuiti, rendendo inevitabile il supporto dell’altrettanto valido Hellroadie. Ascoltando invece il guitar work, mi resi conto (già lo sapevo) che era tutta un'altra musica! Virtuosismi grezzi, striduli, altisonanti, veloci e melodici, eseguiti anche con un pizzico di teatralità, come in Witches Brew quando il vecchio squalo eseguì parte dell’assolo posando la chitarra dietro la nuca (un omaggio a Hendrix, quasi certamente). Pioggia di classici nel finale, tra i quali la massiccia e furiosa Up From the Crypt e l’immancabile cavalcata Necropolis: fu il delirio più totale, tanto che eravamo allo stremo quando in coro intonammo l’ultimo refrain della serata, costituito da Heavy Metal to the World, tamarra lode alla musica pesante, atto a far sgolare ogni defender che si rispetti! Dopo tutto questo ben di Dio, i Road si congedarono definitivamente, prima che il Legend si levasse in un’ultima commossa ovazione. Sapevo che Mark e gl’altri sarebbero usciti per i saluti finali, ma era già l’una di notte e io avevo i minuti contati. Il viaggio di ritorno m’impegnò per tutta la notte. Rincasai all’alba e mi concessi qualche ora di sonno, prima di andare al lavoro.

Non chiedetemi quale sia il mio pensiero definitivo riguardo a quella serata perché non lo so nemmeno io: una pioggia d’emozioni talmente forti da non riuscirle a capire! Posso solo dire che vivo il presente col piacere del ricordo, sperando che il sogno possa riprendere da dove è nato…così…all’improvviso…

Federico “Dragonstar” Passarella.

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