Soltanto negli ultimi anni questa band del Texas, precisamente della cittadina di Wichita, sta iniziando ad avere l'attenzione che non ha mai avuto per oltre 25 anni, quando riusciva a malapena ad organizzare qualche concerto all'interno dei polverosi pub americani della zona. Anni duri quelli, anni in cui i tre membri del gruppo, Mark Shelton, Scott Parks e Randy Foxe hanno dato alla luce capolavori indiscussi dell'epic, scalzando dal trono un'altra grandissima band come gli Omen. Dopo la pubblicazione dello scarno live Roadkill, la band subì una piccola crisi compositiva che portò il gruppo a produrre "Out of the abyss" del 1988. Un album accettabile ma lontano dai livelli, forse inarrivabili, fatti toccare dalla band nel periodo 1983-1987.
Arduo compito quindi per Mark "The shark" Shelton: riscattarsi e ridare credibilità ai padri dell'epic. Il risultato è l'ottavo lavoro in studio dei Manilla road, pubblicato nel 1990 con il titolo "The courts of chaos".
Un ritorno al passato, in particolare alle sonorità di "Open the gates" e "The deluge". Viene abbandonato il thrash dell'album precedente e si torna a quelle atmosfere epiche e psichedeliche che i Manilla avevano sperimentato soprattutto nella prima parte della loro carriera.
La grande classe compositiva della band è rimasta intatta nonostante il mezzo passo falso di "Out of the abyss" e i tre texani tornano a sprigionare quintali di pathos, con un album che non è certo tra i loro capolavori ma che li riconferma come la band più influente in questo genere di nicchia. A dire il vero però il platter non parte nel migliore dei modi: "Road to chaos" è un'opener strumentale francamente poco ispirata, che vuole fare il verso di "Morbid tabernacle" ma che non ci riesce. Poco entusiasmante è anche la successiva "Dig me no grave" ancora legata per sonorità al disco precedente. La terza traccia è inusuale per i Manilla Road. "D.O.A." è una cover dei Bloodrock, gruppo seminale di hard rock texano. Riproposizione impeccabile, ma quantomeno fuori luogo in un album di epic. Inoltre ho sempre trovato inutile inserire cover in un album in studio.
Dopo un inizio non proprio esaltante, si riaccende la luce ed ecco tornare il gruppo di sempre, quello che cantando scenari oscuri, battaglie, antichi popoli e narrando le maggiori vicende storiche che hanno caratterizzato il nostro mondo ci ha trasportato in un paradiso dai connotati fantastici. Con "Into the courts of chaos" riecheggiano note prettamente epiche e il pathos si torna a respirarlo: a mio modo di vedere una delle dieci migliori song dei Manilla Road. Gli stessi elementi creano "From beyond", sapientemente governata dall'inconfondibile voce di Shelton.
"The courts of chaos" prosegue convincendo: "A touch of madness" e "The prophecy" sono create nel pieno stile della band: ritmi sostenuti e improvvise decellerazioni, soli marchiati Shelton ed epicità a livelli degni di nota. Dopo il fulmine metallico "(Vlad) The impaler" ispirata al conte Vlad III di Wallachia, ecco giungere l'apoteosi dell'album, il gioiello inaspettato. La conclusiva "The books of skelos" ci riporta indietro nel tempo: l'arpeggio iniziale rimanda a "The deluge", la voce si fa trascinante, gli strumenti collaborano a creare una delle migliori canzoni del gruppo texano. Uno spettacolo puro, come il loro metal.
Un lavoro ancora una volta positivo, che conferma quanto sia stata e quanto è importante oggi questa band per il panorama heavy metal americano. Un lavoro proveniente da un'altra epoca...
1. "Road To Chaos" (4:44)
2. "Dig Me No Grave" (4:21)
3. "D.O.A." (7:02)
4. "Into The Courts Of Chaos" (5:23)
5. "From Beyond" (5:04)
6. "A Touch Of Madness" (7:02)
7. "The Impaler" (3:27)
8. "The Prophecy" (7:00)
9. "The Books Of Skelos" (8:09)
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