Sono nati nel Mesozoico del metal, hanno sputato "Invasion" e "Metal" rispettivamente nel 1980 e 1982: eppure la leggenda dei Manilla Road è nata in realtà a metà degli anni '70, quando il singer e chitarrista Mark Shelton ha deciso di mettere su questo gruppo. Gli esordi sono da annoverare nei polverosi pub di Wichita (Kansas): solo dopo qualche anno di gavetta i Manilla Road decisero di pubblicare il primo lavoro.

A distanza di oltre trent'anni dalla nascita del combo, i Manilla Road hanno mantenuto intatta la loro umiltà: non si sono mai venduti al business, non hanno mai strizzato l'occhio al facile successo, proprio perchè è nella loro indole la caratteristica di rimanere semplici, accantonati in un angolo. Eppure molti non hanno mai conosciuto alcuni loro lavori che per quanto mi riguarda sono delle colonne imprescindibili dell'heavy metal tutto: capitoli come "Crystal logic", "Open the gates" e "The deluge" avrebbero fatto gridare al miracolo se una qualsiasi altra band metal con un certo peso li avesse dati alle stampe. Invece sono nati dai Manilla Road, che nessuno conosce ma che forse dovrebbero cominciare ad essere riscoperti.

E' per tutta questa lunga serie di motivi che "Playground of the damned" era da me atteso (ma un po' da tutti i fans) come un miraggio, perchè gli album della band sono sempre qualcosa di unico ed irripetibile: non si sa mai quando Shelton e soci possano smettere, anche perchè l'età avanza. Per capire questo cd si deve però fare un passo indietro a "Voyager" del 2008: un disco importante, ottimamente riuscito (anche se con il tempo è stato rivalutato in negativo) ma comunque un lavoro di forza e di gran classe compositiva. C'era stato l'abbandono dietro il microfono di Bryan Patrick, divenuto soltanto chitarrista e l'utilizzo per la prima volta da parte di Shelton di growl che qua e la facevano capolino. In "Playground of the damned", Patrick rimane a fare il chitarrista mentre del growl non c'è più nessuna traccia: "The shark" Shelton torna alla sua voce nasale ma espressivamente unica.

Tutti gli elementi sono al loro posto, non serve altro se non ascoltare il cd, ma bastano i primissimi secondi di "Jackhammer" a mostrare l'unica grande pecca di quest'album: una registrazione infima, a dir poco pessima. I suoni sono lontanissimi e ne risentono in particolare le due chitarre. Le registrazioni di album come "Invasion" e "Crystal logic" di ormai trent'anni fa erano assolutamente migliori di questa, il che è tutto dire. Nulla può però scalfire il ritmo marziale di "Into the maelstrom" o inficiare il risultato finale della titletrack, oscura, epica e tremendamente evocativa nel suo ritornello sognante, firma indelebile di Shelton. Ad una serie di pezzi abbastanza canonici, fatti di possenza ed heavy metal (spettacolare il pathos di "Brethren of the hammer"), ne seguono altri che provengono direttamente dal nuovo corso dei Manilla: stiamo parlando di composizioni complesse e molto spesso inframmezzate da improvvise spruzzate acustiche perfettamente integrate nell'atmosfera da leggenda che la band del Kansas riesce ad evocare. E' il caso di "Abattoir de la mort", varia e con un incedere drammatico: di queste stesse caratteristiche è la conclusiva "Art of war", ballata dal sapore perduto e incorniciata da un testo come solo Mark Shelton può scrivere. Il commiato definitivo per l'ennesimo ottimo album dei Manilla Road.

Tralasciando quindi una registrazione disastrosa, "Playground of the damned" insegna l'epic metal a tutti i gruppetti odierni che si spacciano con quest'etichetta, dimostrando come lo stile e la classe non provengano tanto dai mezzi a disposizione quanto dalla capacità di comporre e dall'umiltà di farlo. I Manilla Road in questo fanno scuola.

1. "Jackhammer" (5:20)
2. "Into The Maelstrom" (4:37)
3. "Playground Of The Damned" (4:20)
4. "Grindhouse" (7:28)
5. "Abattoir De La Mort" (7:02)
6. "Fire Of Ashurbanipal" (4:33)
7. "Brethren Of The Hammer" (4:53)
8. "Art Of War" (7:01)

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