“Penso sia il miglior gruppo di persone con cui abbia suonato da molti, molti anni a questa parte…”
È con queste parole che Mark Shelton introdusse il sedicesimo album dei Manilla Road, il secondo prodotto dalla ZYX, che pubblicò anche il precedente Mysterium, del 2013, un album che aveva fatto notevoli passi avanti sul piano della resa sonora, anche se dal punto di vista compositivo, denotava alcuni cambiamenti che non tutti apprezzarono, a partire da un drumming più scarno e prevedibile (spesso orientato sui mid-tempos), e da un “clima” vagamente più anonimo che non era riuscito a conquistare tutti.
In realtà Mysterium era un buon album, suonato da una lineup ancora acerba, dal punto di vista delle parti ritmiche, con Neudi e Joshua Castillo non ancora perfettamente integrati con la filosofia sonora della band; una lacuna che però è andata via via scemando nel corso di qualche mese, passato in tournee a suonare i vecchi brani. Questo tuffo nel passato, ha dunque permesso ai nuovi componenti di suonare al meglio questo The Blessed Curse, il basso torna a guizzare le sue trame oscure, mentre il drumming diventa di nuovo roboante, articolato e imprevedibile, ponendosi ancora come saldo trademark della band, cosicché i duelli tra batteria e chitarra possono proseguire, imponenti e in grande spolvero, la loro eterna e perpetua sfida. Tutto ciò è stato immortalato da una produzione ancora più compatta, dal punto di vista dell’equalizzazione sonora, e da una maestosa tracklist, strutturata in un doppio album, della durata complessiva di circa 100 minuti di musica, all’interno dei quali riscontrerete il classico stile della band, più qualche inaspettata novità, che lascerà di stucco molti di voi.
Il sound dei Road, in effetti, è sempre stato tradizionale e seminale al tempo stesso, e presenta spesso delle autocitazioni che si ripropongono disco dopo disco. Al contempo, però, il sound riesce ogni volta a rivoluzionarsi e a sperimentare nuove soluzioni e suoni. Qualora conosciate i vecchi dischi, provate a pensare, ad esempio, a Crystal Logic e ad Open The Gates: chi avrebbe il coraggio di dire che suonano alla stessa maniera? O ancora, se da una parte il massiccio epic metal di The Deluge si tinge di sfumature prog settantiane, Out of The Abyss, riesce addirittura a presentare episodi thrash oriented. Stesso discorso per i dischi più recenti: se Spiral Castle rivisita il vecchio heavy/doom metal, ornandolo di sfumature psichedeliche, Playground of the Damned, sfoggia un lato dark oriented, mai sentito prima.
Questa noiosa pappardella è servita solo a zittire tutti quelli che sostengono (non sono molti, per fortuna) che i Road sono sempre gli stessi da trentasei anni a questa parte: la frase più campata in aria che si possa attribuire a questa band. A questo punto, tolti i sassolini dalla scarpa, sarà meglio procedere con l’analisi del disco, o meglio dei dischi perché, come detto poc’anzi, si tratta di un doppio album basato sull’epopea di Gilgamesh, ossia, un ciclo epico di ambientazione sumera, impresso in caratteri cuneiformi su tavole d’argilla, nonché uno dei più antichi poemi della civiltà umana. Spiegando il concept in due parole, Gilgamesh è il crudele sovrano di Uruk, che dovrà scontrarsi con Enkidu, un guerriero plasmato dagli dèi che ha il compito di sconfiggere il re sumero. Lo scontro finirà alla pari, e tra i contendenti nascerà una bella amicizia, che verrà di colpo troncata dalla morte di Enkidu, sconfitto da una malattia mortale. Segnato da questo tragico evento, Gilgamesh intraprenderà un epico viaggio alla ricerca dell’immortalità.
Il consiglio è comunque quello di leggere il sunto completo del poema (disponibile su Wikipedia), al fine di comprendere (o meglio vivere) con maggior chiarezza e profondità il concept proposto da quest’opera magna.
The Blessed Curse
Il primo disco di questa release contiene l’album vero e proprio. Il clima è potente, arso, orientale e desertico, e riesce a ricalcare efficacemente le emozioni dell’epopea di Gilgamesh, diventando di fatto un’impeccabile trasposizione dell’immortale poema. I testi tornano a sprigionare filosofia e saggezza, unendo al tutto una marcata componente poetica, come non la si sentiva dai tempi di The Deluge. E se la title-track si pone impeccabilmente come manifesto dell’intero disco, Truth in the Ash va a rivisitare il carattere più eroico e muscolare della band, mentre Tomes of Clay e Falling vi lasceranno senza fiato, per la vena orientale ed evocativa con la quale sono state strutturate: due impareggiabili hit elettroacustiche in salsa psichedelica; tra di esse spicca una potente ed oscura The Dead Still Speak. A questo punto iniziano circa 20 minuti di pura adrenalina metallica, divisi tra la cavalcata Kings of Invention e la massiccia e deflagrante Reign of Dreams, prima che Luxifera’s Light e Sword of Hate, conferiscano all’opera un momento più cadenzato e solenne. Chiude il disco The Mused Kiss, un’altra ballad semiacustica di visionaria bellezza, una pura evocazione al regno ultraterreno, ornata di raffinati rimandi al prog settantiano.
Il primo disco scorre quindi liscio con la solita efficacia e disinvoltura, senza presentare particolari sorprese dal punto di vista del songwriting. Tre quarti d’ora abbondanti che fungono come degno proseguo di quanto di più bello era stato fatto col precedente Mysterium, con una sessione ritmica in grande spolvero e con uno strepitoso Shelton in fase solista, che conferma il pregevole potere del guitarwork, da sempre inossidabile trademark della band. Buone anche le parti vocali, malgrado non riescano più a donare ai brani la stessa carica evocativa di un tempo.
After the muse
Quando la title-track inizierà a girare nel lettore, vi chiederete certamente: “che cos’è After the Muse?” È un bonus disk, contenete scarti e riempitivi? È il proseguo lirico di The Blessed Curse? O si tratta addirittura di un secondo album, completamente autonomo e sperimentale, imballato nella stessa confezione? Bene; After the Muse è prevalentemente un monumentale unplugged sospeso tra folk e psichedelia, un lavoro quasi totalmente acustico che riesce però a regalare un dignitoso proseguo a quanto udito nel precedente album. Intanto va detto che è cambiato il suono, ma non lo stile: After the Muse riesce ad essere 100% Manilla Road pur presentandosi con una scelta stilistica alternativa e azzardata. Sì, perché quando un gruppo metal si lancia con un esperimento di questo tipo, coinvolgere senza annoiare, resta il più importante obbiettivo da raggiungere.
Di primo acchito, After the Muse potrebbe presentarsi come un prodotto di ardua digeribilità, ma una volta assimilato risulterà addirittura più interessante dell’altro disco! Poco importa se qualche scribacchino ha osato supporre che quest’album sia un mezzo propagandista al fine di promuovere il lavoro solista di Mark Shelton, quell’Obsidian Dreams che tanto si avvicina al suono di questo disco. Quale malignità! Una release giustificata anche dalle stesse parole di Shelton: “Perché un doppio album? Per il semplice fatto che non riuscivo a dire tutto in un solo disco”. Stavolta la calura e la desolazione penetrano gradevolmente i nostri animi, mentre Gilgamesh continua il suo solingo viaggio lasciandosi alle spalle un paesaggio di dune calpestate, e sostando talvolta in splendide e ritempranti oasi dimenticate dall’uomo. Life Goes On e Reach, sanno ben descrivere tutto ciò, ma ci sono anche una folklorica title-track e una delicata In Search of the Lost Chord, l’intima evocazione di un cantore solitario. Tutti pezzi che dimostrano d’essere nati dal sudore e da una certa lucidità compositiva, e sicuramente non come un pretesto pubblicitario, anche perché, se sono un musicista che intende promuovere un mio progetto alternativo, al massimo creo una canzone di tre o quattro minuti che ricalchi le venature del mio disco solista, non vado a comporre mezz’ora di materiale inedito!
Volete sapere qual è il vero difetto di quest’album (che poi ricade come unico importante difetto dell’intera release)? La presenza di due versioni diverse di All Hallows Eve, una suite, mai pubblicata prima d’ora, nata nel 1981, durante una jam session in studio della vecchia line-up. Il pezzo fu registrato in presa diretta, ma con mezzi di fortuna, e questo problema crea dunque un’importante e fastidioso sbalzo sonoro, del tutto fuori luogo rispetto alla raffinata e sobria magia che si respira per tutto il resto dell’album. Il pezzo è stato comunque completato nel 2014 con quattro minuti inediti che vanno ad aggiungersi agli undici dell’originale: quest’ultima versione va a concludere degnamente questa magniloquente saga musicale. Sì, perché il pezzo in sé non è niente male: un’apertura acustica, lunga e piacevolmente monocorde, pregna di bonaccia ancestrale, che si dipanerà per quasi sette minuti, finché un elettrico riff, impetuoso e improvviso, va ad aprire una cavalcata hard’n’heavy che ricalca i fasti del magniloquente Crystal Logic, ossia suoni grezzi, ma decisamente più contenuti e morbidi, specialmente nel drumming, di chiara matrice “space rock settantiana”. Se a tutto ciò aggiungessimo infine uno Shelton che torna magistralmente a proporre il suo timbro nasale e altisonante, ecco che il risultato diventa indubbiamente eccellente. Il pezzo epiloga dunque il disco proponendo un carattere più metal, atto a creare un’affinità musicale con l’altro album che parte prevalentemente elettrico, per poi diventare più sobrio e acustico nel secondo disco; una pace che viene però infranta nei minuti finali dell’ultima suite con la decisiva, inesorabile cavalcata.
Che cosa bisognava fare allora per risolvere questo problema della doppia suite? Semplice: eliminare la mela marcia, ossia la versione originale, specificando però nel libretto che la suite finale deriva proprio dalla storica jam session dell’81, che poteva essere risparmiata per questo lavoro e inserita in seguito, come bonus track di un futuro album.
Conclusioni
Non c’è molto altro da dire, a parte che questo disco rimane fra le prime posizioni del 2015 per le uscite in ambito metal. Un doppio album che per la prima volta, potrebbe coinvolgere anche gli amanti del folk-rock settantiano, grazie ad una serie di canzoni che identificano l’inesauribile vena sperimentale di questa leggendaria band. Chissà che cosa s’inventeranno la prossima volta…
Federico “Dragonstar” Passarella
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