1997: i Mansun esordiscono. "Attack Of The Grey Lantern" apre una strada più oscura, complessa e magmatica all'interno del brit-pop. Il secondo lavoro è attesissimo. Ma non arriva. Arriva invece il sesto: i Mansun, come i saltatori con l'asta ambiziosi, mirano direttamente alle quote importanti. Ed ecco "Six". Un "concept album", o meglio, un album concettuale, dove il brit-pop si miscela al progressive, al punk, alla musica classica ("Fall Out" si apre con una moderna interpretazione dello Schiaccianoci di Ciaikovskij), alla lirica ("Witness To A Murder: Part Two"), e dove ci si perde in un autentico labirinto di suoni.

Si dice che i Mansun fossero entrati in studio con una trentina di spunti e abbozzi. Invece di eliminarne alcuni e di trarre dagli stralci migliori 12 pezzi canonici, Paul Draper e compagni scelgono di tenerli tutti e di metterli assieme in un ipnotico collage di 70 minuti. Ne escono 13 canzoni di lunghezza estremamente disuguale (dal minuto e mezzo di "Inverse Midas" - piano e voce - ai nove minuti di "Cancer"), e ne esce un disco sbalorditivo.

Come un quadro di Escher, come la biblioteca de "Il Nome della Rosa": lungo una trama tematica religiosa (eretica, si intende) ed esistenziale, si è costretti a seguire un asimmetrico accozzo di suoni assurdamente (ma geometricamente) strutturati. Alcune canzoni sembrano averne fagocitate altre, come l' eccezionale "Cancer", che passa dal prog all'hard rock, da un intermezzo di solo piano a un finale di tastiere e melodie sussurrate, con un friccheggiante inserto pseudo-beatlesiano della durata di 15 secondi; o come "Six", accozzaglia di almeno quattro canzoni diverse che si intersecano tra loro. Si scende, si sale, si entra in una canzone e si sbuca in un'altra (rimanendo nella stessa), con i pezzi che sembrano mescolarsi, scambiarsi tra loro, con un effetto vertiginoso che, se lascia interdetti e travolti ad un primo ascolto, finisce per entusiasmare, proprio per l'incapacità di mettere ordine ad un caos che riesce tuttavia nell'impresa di apparire combinato ed architettato. I casi di smarrimento e ritrovamento, perdita e agnizione, sono continui: il finale di "Fall Out" è dato dal giro di chitarra che dominerà la spettacolare "Legacy" (il primo singolo e il brano più melodico); "Being A Girl" è una canzone punk di due minuti, che però (dopo essere indubitabilmente finita) ha una coda prog di cinque minuti; "Special / Blown it (delete as appropriate)", dal significativo titolo uno e trino, ha un'intro di più di due minuti (batteria, piano e chitarra effettata con esito intontito e snervante) che si apre, nel momento meno atteso, in una liberazione di punk-rock ad altissimo livello. E così "Shotgun", "Television", la fantastica "Anti-Everything". L'esito è inqualificabile, impossibile da incasellare.

Il Calvino combinatorio fatto rock.

Si tratta senz'altro del risultato più coraggioso (e più duraturo?) dei Mansun e dell' intero brit-pop. Poi Draper e compagni hanno partorito l'insulso "Little Kix", che con "Six" fa rima ma non c'entra nulla. Poi lo scioglimento, non prima di aver quasi completato un quarto disco che ha visto la luce monco ("Kleptomania"), ma che lascia almeno un buon ricordo. Di questi giorni è il nostalgico "Legacy: The Best Of Mansun".

Di certo, "Six" è sufficiente perché l'eredità dei Mansun venga decisamente rivalutata: non sarebbe giusto che accadesse loro quello che, nella coda di "Legacy", Draper canta sconsolatamente ad libitum: "Nobody cares when you're gone...".

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