“L'uomo solo - che è stato in prigione - ritorna in prigione

ogni volta che morde in un pezzo di pane.”

Questi versi di Pavese sono ciò a cui dichiara di essere rimasto fedele uno dei tanti personaggi minori di questo romanzo, un oligarca argentino, ex guerrigliero, poi ex ricattatore, ex dirigente corrotto e tante altre cosucce.

Manuel Vázquez Montalbán deve avere un debole per Pavese, visto che anche in altri suoi libri di trovano dei riferimenti allo scrittore santostefanese.

Non sono mai stato in Argentina a e di conseguenza a Buenos Aires.

La Buenos Aires che ho trovato in questo romanzo è una palla di vetro, piena di un brodo molto denso, quasi una gelatina, fatto di umori umani, effluvi di asadi, tanghi, sangue, malinconia, rabbia e sofferenza senza speranza (Madri di Plaza de Mayo, manifestazioni in ricordo della notte delle matite) e altro che fatico a descrivere.

In questo brodo si muove il detective Pepe Carvalho in una sorta di viaggio onirico che ha per personaggi il finto figlio illegittimo di Jorge Luis Borges, finti Robison Crusoe e Venerdì, chef assassini, “malefemmene”, e, soprattutto, un pugno di residui umani di un passato vecchio di vent’anni (dittatura militare, guerra sporca, desaparecidos, guerra delle Malvinas, il Processo, cose di cui so poco niente).

Tra questi vi sono i sopravvissuti di una banda di ex rivoluzionari marxisti.

Uno di questi è una donna, bionda, occhi verdi, l’ombelico attorno al quale gira tutto il racconto.

Una creatura che si trova in una sovrapposizione di stato come il gatto di Schrödinger tra le anime di due sorelle che erano a capo della banda.

“L’hai vista Alma? Sembra reale, vero? No, non è reale.”

Ora fa la professoressa di lettere, ed ogni tanto accoglie tra le sue gambe uno dei suoi compagni di cammino, più con atteggiamento materno che di amante.

Due hanno cambiato pelle e sono passati dalla lotta al potere all’essere parte del potere.

Uno è un attore teatrale fallito che si è reincarnato nelle squame di un presentatore di spettacoli in un club di tango.

E poi c’è un fantasma che torna dopo anni in cui era stato in Spagna, e si porta appresso il passato di vent’anni addietro.

È per mettersi sulle sue tracce che al detective protagonista tocca di lasciare le sue Ramblas, la sua Barcellona, e mettere piede in Argentina. E anche lui come me sembra sprovvisto di riferimenti per orientarsi in quel mondo, al punto che alcune persone si sentono in dovere di fornirgli indicazioni non richieste, stereotipi buoni a sintetizzare l’Argentina ai forestieri di passaggio (“tango, Maradona e desaparecidos”)

Pepe Carvalho è costruito sul modello “Phil Marlowe” utilizzando un calco molto aderente. È tutto battute brevi e caustiche del tipo:

“Detective privato?” (domanda fatta da uno a cui il detective chiede informazioni), risposta: “Sociologo”;

“può dimostrarlo?” (domanda fatta da un poliziotto), risposta “Non è un teorema”.

In effetti sembra di avere a che fare davvero con Marlowe se non fosse per le sue grandi passioni, la cucina ed il dar fuoco ai libri.

Nonostante la presenza ingombrante del detective, non sono sicuro che questo libro possa essere annoverato nel genere noir (anhe se l'ho messo come genere), hard boliled o più genericamente poliziesco. Se dovessi trovare per forza una definizione utilizzerei ciò che ho detto all’inizio: un viaggio onirico del protagonista.

Il racconto procede come un magma di parole e dialoghi, il cambio di scena avviene spesso con nonchalance tra una battuta e l’altra, senza che ci sia un’interruzione di capitolo a sottolinearlo.

Fa capolino anche un po’ di surreale che è uno degli ingredienti che ogni tanto a M.Vázquez Montalbán piace utilizzare. Gustoso sotto questo aspetto il capitolo “Assassini nel Club de Gourmets”

A chi non conosce lo scrittore il suo cognome suonerà comunque famigliare, c’è un perché ma non ho voglia di parlarne.

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