Recensire Marc Almond per me è sempre una sfida ardua; stimolante, appassionante, appagante, ma è tutto un soppesare attentamente le parole, trovare quelle giuste, riuscire a trasmettere con efficacia le emozioni, le atmosfere, il background autorale; e poi controllare se è tutto a posto, se non ci sono ridondanze, ripetizioni, metafore o accostamenti poco felici. E non è mai facile. Ci sono recensioni che mi escono di getto, buttate giù quasi come per gioco, divertendomi senza pensarci troppo, altre le prendo un po' più sul serio, quelle di Marc sono una categoria a sè stante. E questo vale per quando ne tesso le lodi, come finora ho sempre fatto, figuriamoci recensirlo negativamente. Per quanto ho avuto modo di ascoltare, ci sono solo due album che con me proprio non funzionano, "Stranger Things" del 2001 e "Stories Of Johnny" del 1985; sul primo poco da dire, un disco fiacco e anonimo frutto di un fisiologico appannamento dopo una lunghissima serie di grandi prove, il secondo invece è un album che gode di molta stima e credito, e merita sicuramente una spiegazione, un approfondimento sul perchè della mia bocciatura.
Il periodo è quello dei Willing Sinners, un nucleo di musicisti capitanato dalla produttrice e co-autrice Anni Hogan che ha accompagnato l'artista dal 1984 al 1987, anni segnati da tre LP: "Vermin In Ermine", "Stories Of Johnny" e infine "Mother Fist And Her Five Daughters". Tre album molto diversi tra loro; "Vermin..." è tra i vertici assoluti della sua carriera: grintoso, incisivo, sanguigno, una vera pietra miliare, "Mother Fist..." è sofisticato, molto cantautorale, un ampio range stilistico e atmosfere piacevolmente ombrose, il secondogenito ha anch'esso un'identità molto spiccata, è un episodio unico (per fortuna) nella carriera di Marc, ed è proprio la sua personalità appariscente ma monocorde ad azzopparlo, oltre ad un songwriting secondo me non all'altezza dei due album "fratelli". "Stories Of Johnny" perde quasi completamente l'energia e lo slancio emotivo di "Vermin In Ermine" per assestarsi su sonorità che vorrebbero essere vintage, infarcite di fiati, orchestrazioni, cori e controcanti: risultato? Un album invecchiato male e terribilmente farraginoso pur nella sua relativa brevità. Prendiamo ad esempio "Love Letter" e "The Flesh Is Willing", due brani che in teoria dovrebbero essere di traino per l'album, ma di fatto cosa lasciano? Ritornelli ripetuti fino allo sfinimento, quasi a mo' di jingles pubblicitari, suoni leccati, poco organici, un vago sentore di piacioneria e recital non particolarmente ispirato; i cori che seguono costantemente la linea del cantato in teoria dovrebbero aggiungere sfumature e particolarità, in pratica risultano un orpello superfluo che va ad appensantire ulteriormente un insieme già poco convincente di suo. Il Marc Almond di questo album è un crooner abbastanza sciapo, quasi incapace di sfruttare appieno le potenzialità della sua voce, lo sento ingessato, manieristico, un po' forzoso, e non è solo questione di arrangiamenti. Canzoni come "Always" o la stessa titletrack sembrano blandire l'ascoltatore senza peraltro particolare efficacia: non riescono mai ad affondare il colpo, a regalare emozioni vere; melassa agrodolce che si trascina con piglio stanco e un po' lezioso. "Contempt" potrebbe essere uno swing retrò non particolarmente originale ma intrigante, anche qui coretti irritanti che mandano in vacca il tutto, "Love And Little White Lies" con quel piattissimo e pedante sottofondo simil gospel/corale è la quintessenza dell'inconcludenza che affligge l'album.
Che rimane allora? La beffarda illusione dell'iniziale "Traumas, Traumas, Traumas", crescendo gustosamente paranoico, sanguigno ed elegante, scandito da percussioni tribali, che rielabora il mood di "Vermine In Ermine" in chiave più ricercata, una breve e intrigante "The House Is Haunted", anticipazione delle atmosfere da cabaret darkeggiante di "Mother Fist..." e "My Candle Burns", ottima performance da cantautore d'antan, ovvero come l'album avrebbe teoricamente dovuto suonare, con una ritmica intrigante, melodia piacevolmente classica e cori finalmente efficaci e usati nel modo giusto. Un po' poco per giustificare un album intero, per di più di un artista su cui ho sempre aspettative altissime. Fossi stato in lui, avrei pubblicato solo queste ultime tre canzoni, magari accorpandole all'ottimo EP di cover "A Woman's Story" dell'anno successivo, perchè tutto il resto mi sembra veramente poca roba. Mi viene spontaneo paragonare "Stories Of Johnny" a "Death Of A Ladies' Man" di Leonard Cohen: sono entrambi album iper arrangiati con qualche buono spunto limitato da un contesto generale che si regge in piedi a fatica; la differenza sta nel fatto che in questo caso non c'è stato bisogno di nessun produttore maniaco, Marc ha fatto tutto da solo andandosi ad infilare in un binario morto, e per fortuna riuscirà a chiudere immediatamente questa parentesi negativa con una meravigliosa sequela di prove magistrali.
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