Mi sarebbe piaciuto recensire "Tenement Symphony", un bellissimo album, e non è detto che in futuro non lo farò, ma per ora scelgo una nuova sfida, mi concentro su una singola canzone, e deve essere una veramente speciale. "Tenement Symphony" del '91 è un tripudio di ritmi sensuali e melodie vintage, l'amore di Marc Almond per un certo tipo di pop cantautorale anni '60 traspare in due magistrali cover, "Jackie" di Jacques Brel e "The Days Of Pearly Spencer" di David McWilliams, che sono anche i due brani più immediati, quelli che più di tutti catturano l'attenzione di un ascoltatore occasionale, poi ci sono canzoni come "Beautiful Brutal Thing" e "What Is Love", potenti e vorticose. Nei miei primissimi approcci con questo disco, "Champagne" mi era passata quasi inosservata, un sussurro, un eco che man mano si è fatto sempre più forte fino a sopraffarmi, fino ad occupare un posto molto speciale nel mio cuore, più grande di ogni altra canzone di questo Artista che adoro fin quasi ai confini della riverenza.
L'album a cui appartiene è caratterizzato da un netto distacco dalle sonorità orchestrali, sontuose e dai risvolti etnici del suo predecessore "Enchanted", e "Champagne" non fa eccezione: qui Marc Almond unisce synth pop e chanson. Un'ossatura elettronica, ritmi dilatati, atmosfera malinconica ma vivida, fotografica, sottolineata da qualche azzeccatissimo arrangiamento supplementare, carillon, qualche nota di piano, cori femminili che risuonano lontani, quasi irreali. Anche se teatrale come suo solito, il cantato di Marc risulta molto più sobrio e dimesso rispetto al recente passato, come a voler creare un'atmosfera intima e raccolta. "Champagne" non fa sgranare gli occhi e spalancare la bocca dalla meraviglia come ad esempio "Madame De La Luna" o "She Took My Soul In Istanbul", anzi, semmai ha un'effetto "somatico" diametralmente opposto, ed è una canzone di una bellezza devastante, sottile, ma devastante.
Champagne non è un vino francese ma una persona, il nome d'arte di un uomo di spettacolo; un attore, un ballerino, un gigolò d'alto bordo, qualcosa del genere. "And they sey you're doing fine, they're just playing with your mind and they never even know your name, but they all want you to shine, to glitter all the time, they all want a little taste of champagne"; il personaggio, il trucco, la maschera che soffoca l'essere umano. Champagne si sveglia nel freddo grigiore di New York, compie gesti rituali, meccanici, senza alcuna gioia, esce di casa e osserva il mondo intorno a sè con occhi di vetro, apatici. Forse sta cercando qualcosa, un motivo per andare avanti, una causa per cui lottare ma non trova niente, nessuno riesce a percepire il suo dolore, il suo mal di vivere. La sua vita si spegne in solitudine, il trapasso alleviato del vacuo conforto di piaceri artificiali.
La tematica non è sicuramente inedita e per Marc Almond è quantomai familiare, fino al punto da incentrare un intero album, "Varietè", sulle controversie e i travagli della vita d'artista, ma nei cinque minuti e mezzo di questa canzone è riuscito ad essere ancora più monumentale del solito. Quando penso a "Champagne" penso ad una serenata per anime ferite che, nonostante la totale assenza di un barlume di speranza, di un lieto fine, suona quasi dolce, consolatoria, come un inno, una fonte d'ispirazione. Come? Come per magia, un genere di magia a cui credo senza dubbi ed esitazioni.
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