Chi è anzitutto Vadim Kozin? Vadim Kozin (1903 – 1994) era un tenore russo che spopolava negli anni '20 e '30, un vero eroe nazionale, tanto che fu chiamato ad intrattenere e a mantenere alto il morale delle truppe sovietiche durante il secondo conflitto mondiale. La sua celebrità tuttavia non lo preservò dall'internamento nel gulag di Magadan, dove fu confinato nel 1944 in pieno regime staliniano: anche se non è mai stato dichiarato apertamente, pare che le ragioni di tal condanna siano adducibili alla sua presunta omosessualità. Nonostante un temporaneo rilascio nel 1950, Kozin non verrà mai ufficialmente riabilitato e il celebre cantante, la cui carriera era oramai irrimediabilmente compromessa, troverà la morte, all'età di novantuno anni, proprio a Magadan, terra di un lungo e sofferto esilio.

Marc Almond invece non ha certo bisogno di presentazioni: voce dei Soft Cell, icona indiscussa del pop ottantiano, protagonista poi di un'altalenante attività come solista negli anni a venire, se costui merita il mio interesse è senz'altro per le svariate comparsate in casa Coil e Current 93, e per il bellissimo “Feasting with Panthers” dello scorso anno, scritto a quattro mani con quel genio della musica che risponde al nome di Michael Cashmore, chitarra storica dei Current 93.

Per gioco, scherzo, curiosità, ho quindi riesumato questo lavoro in cui Almond (sicuramente meglio in veste di interprete di pezzi e testi altrui che come autore di roba propria) intende rivitalizzare l'arte di Kozin, per certi aspetti icona gay ante litteram, e per questo motivo (suppongo) celebrata da un artista come Almond. Un lavoro che certo non si può dire tirato via o fatto tanto per fare (nonostante la bulimia discografica che ha caratterizzato questa seconda giovinezza del cantante, reduce fra l'altro da un incidente in moto che avrebbe potuto costargli la vita), visto che partecipano all'operazione una schiera di importanti professionisti della Madre Russia, come Alexei Federov, in qualità di produttore, e il direttore Anatole Sobolev, chiamato a dirigere per l'occasione niente meno che la Rossia Orchestra Ensemble: “Orpheus in Exile – Songs of Vadim Kozin” esce il 7 settembre 2009, ovviamente non risparmiandosi al fuoco delle polemiche.

Anche se Almond canta in inglese, l'album mantiene fermamente l'atmosfera dei brani originali: ambientazioni retrò e cabarettismo romantico russo in voga fra le due guerre, tanto per capirci, e converrete con me che per questo motivo il prodotto non risulterà facilmente digeribile ai più, me compreso.

Pur parlando di musica di ottima fattura, ben suonata e superbamente arrangiata, le coordinate stilistiche son quindi troppo lontane dai canoni sonori a noi prossimi per essere adeguatamente apprezzate, tanto che mi è estremamente difficile descriverne i contenuti.

Soffermiamoci quindi sull'interpretazione di Almond: sentita, ispirata, emozionante e totalmente a fuoco rispetto agli intenti che animano il progetto, nonché assolutamente calata in una dimensione sospesa fra cabaret e melodramma, in cui pare che Almond abbia sempre vegetato. La voce di Almond è superlativa (Almond è meglio di Antony), e stupisce come il nostro folletto dell'elettro-pop si trovi a suo agio fra fisarmoniche, clarinetti, violini e molta balalaika, fra folclore slavo, atmosfere gitane (la madre di Kozin era gitana), marcette e romanze dal piglio estremamente (stucchevolmente) melodico. Una voce, la sua, leggiadra e flessuosa, che non sembra proprio conoscere il trascorrere degli anni, uno strumento perfettamente accordato capace di esplorare le tonalità più difficilmente raggiungibili con una disinvoltura ed una naturalezza che hanno del miracoloso.

Dall'apertura della fiabesca “Boulevards of Madagan” (un walzer da sagra paesana) alla conclusiva, evocativa “Letter from Madagan”, poste strategicamente all'inizio ed alla fine dell'opera per rimarcare il tema dell'esilio (e l'intento polemico che porta in sé il progetto, che comunque preferisce celebrare la vitalità e la poesia della musica di Kozin, piuttosto che indugiare sul melenso, il nostalgico ed il senso di perdita e di ingiustizia), non vi saranno grandi colpi di scena per noi, considerato che tutti e tredici i brevi quadretti qui dipinti preservano le medesime caratteristiche: vivaci e scanzonati a tratti (da citare al riguardo “Brave Boy”, che rimane il brano più memorizzabile, sia per la chitarra “pre-noir” che fa una delle sue sporadiche comparsate, sia per i cori festanti che animano il ritornello), struggenti altre volte (il capolavoro “A Skein of White Cranes” e “Beggar”, per solo piano e voce), essi vengono irrimediabilmente marchiati a fuoco dall'ugola di un Almond letteralmente in stato di grazia, in grado di esprimere una maturità artistica inaspettata, riuscendo soprattutto nell'intento (non facile) di far propri brani che sono stati composti anche più di sette decadi fa.

Spiego allora il perché delle tre palle: tutto molto bello, tutto molto fatto bene, però decisamente lontano dai nostri gusti. E se una recensione è infine un consiglio, allora vi consiglio l'ascolto di “Orpheus in Exile” SOLO SE siete fan sfegatati di Marc Almond e non potete fare a meno di ogni sua uscita discografica; O, in alternativa, SE avete in voi quella nostalgia e quella motivazione/missione che giustificano l'impiego del vostro prezioso tempo per una proposta di tal fattispecie. A queste condizioni, di sicuro, una palla in più Almond se la merita.

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